Molti anni fa, nel cuore della foresta siberiana, viveva una tigre. Era una femmina snella e scattante con una grande testa e un paio di occhi gialli enormi e lucenti. Abitava da sempre quella foresta e la conosceva palmo a palmo. Trascorreva le giornate godendosi pigramente la morbidezza del sottobosco e andando a caccia e di solito ritornava nella sua tane ben sazia. Era un’abile cacciatrice e osservava le regole: non tentava mai di portar via una preda a qualcun altro e le piaceva misurarsi con sé stessa, puntando a cacciare gli esemplari più difficili da raggiungere. Quando, dopo corse estenuanti ed eterni appostamenti, riusciva ad avere ragione della sua vittima, si sentiva doppiamente soddisfatta, di stomaco e di cervello. Non dimenticava mai di lasciare i resti per quegli animali meno veloci e meno furbi di lei che necessitavano di quella specie di obolo per sopravvivere e per continuare a mantenere intatta la catena alimentare. La tigre era rispettata dagli altri animali della foresta e conduceva la sua vita tranquillamente.
Le stagioni si rincorrevano e si susseguivano secondo il loro eterno ritmo, facendo di volta in volta mutare l’abito della foresta. L’estate le incendiava di colori con l’esplosione dei fiori e dei frutti selvatici, mentre sotto la coltre sonnacchiosa della bruma autunnale essa si preparava a farsi adornare dai rilucenti gioielli cristallini del gelido inverno. La primavera riportava le gemme e il verde intenso tra le foglie e nell’aria c’era un profumo di novità, di vita rinnovata. E con la primavera tornavano gli amori. Anche la tigre lo trovò e trascorse quella dolce stagione correndo sui prati con il suo compagno, scambiandosi coccole e affettuosità. Il frutto di quell’amore fu un cucciolo di eccezionale bellezza, un solo piccolo, ma forte e robusto, dal pelo morbido e dagli occhi immensi.
La tigre era una mamma premurosa e attenta: trascorreva giornate intere a giocare con lui, lo leccava, lo nutriva e le piaceva tanto quando il piccolo si acciambellava contro di lei e sprofondava in un sonno beato, sfinito dalle corse e dai giochi. Tutti gli animali della foresta ammiravano la tigre e il suo cucciolo: da molto tempo non si vedeva un piccolo così forte e robusto, presto sarebbe diventato un maschio adulto, sicuramente un capo.
I mesi passavano, l’estate prese il posto della primavera e la tigre decise che era tempo di svezzare il suo piccino, così un giorno gli portò un buon boccone di carne e glielo porse al posto della sua mammella. Il cucciolo annusò quel cibo sconosciuto, sgranò gli occhioni gialli, annusò una seconda volta e prese a fissare la madre con aria interrogativa. La tigre spinse con il muso il boccone sotto al naso del suo piccolo, ma lui girò la testa con una smorfia di disgusto. La madre era interdetta. Pazientemente diede lei un piccolo morso alla carne per fargli capire che era cibo. Niente da fare. Il cucciolo cercò di avvicinarsi alla madre per succhiare, ma lei lo respinse: doveva pur imparare a crescere! I tentativi andarono avanti per un po’, ma senza risultato: il piccolo, cocciutamente, si rifiutava di mangiare quel cibo nuovo. Dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto, il piccolo, visto che di succhiare non se ne parlava, girò le spalle alla madre e si inoltrò nel sottobosco. La tigre, incuriosita, lo seguì da lontano e ciò che vide la lasciò di stucco: il tigrotto mangiava tenere foglie e sgranocchiava bacche e radici. Non si era mai visto nulla di simile: una tigre vegetariana!
La madre pensò che si trattasse di un episodio isolato, ma i giorni passarono e il tigrotto, imperterrito, continuò la sua dieta vegetariana. Ben presto si sparse la voce nella foresta e gli altri animali venivano apposta per vedere questo curioso fenomeno della natura. La tigre non sapeva che fare, era una cosa talmente strana
In realtà il cucciolo stava benone, cresceva forte e robusto pur continuando a mangiare foglie, bacche e radici. Ma non fu questa la sola stranezza nel suo comportamento. Poiché non mangiava carne, il tigrotto era attratto dai cuccioli degli altri animali come compagni di gioco. Perciò quando vedeva un piccolo gli si avvicinava con l’intento di giocare, ma naturalmente l’altro, seguendo il proprio istinto, fuggiva terrorizzato. Così il tigrotto restava solo e con l’aria triste e sconsolata tornava dalla sua mamma domandandosi in cuor suo perché nessuno volesse giocare con lui. Non aveva miglior fortuna neanche con i suoi simili perché loro diffidavano di lui: un felino che non va a caccia non è un tipo di cui ci si può fidare, perciò meglio stare alla larga. Così il povero tigrotto trascorreva le sue giornate in solitudine, con l’unica compagnia della sua mamma che lo amava infinitamente nonostante le sue stranezze. Anzi, più vedeva che il suo piccolo era emarginato e deriso dagli altri, più cercava di stargli vicino e di aiutarlo.
A poco a poco la tigre e il tigrotto restarono sempre più soli, ma erano ugualmente felici: facevano lunghe corse e arrampicate su per le montagne e la notte dormivano vicini nella caverna. La tigre aveva capito che le era toccato un figlio un po’ strano, un cucciolo al contrario che mangiava erba e più che una tigre sembrava un’antilope o una gazzella. Lei sapeva che non si sarebbe mai adattato fino in fondo a vivere in una società dove la natura stabilisce dei ruoli e dei cicli vitali ben precisi dai quali non si può deviare. Capì che lui avrebbe avuto bisogno del suo aiuto per molto, molto tempo ancora. Per questo motivo la primavera successiva decise che non si sarebbe trovata un compagno: non poteva avere altri cuccioli e lasciare a sé stesso il suo tigrotto in un mondo che lo respingeva e lo condannava all’infelicità. Almeno finché c’era lei poteva difenderlo dalla cattiveria altrui, poteva dargli l’affetto e il calore che nessun altro gli dava, poteva aiutarlo a sopravvivere e a fargli amare la vita nonostante per lui non fosse facile. Quante notti insonni passava a guardare il suo tigrotto che dormiva acciambellato tra le sue zampe, quante lacrime versava in silenzio, nel buio, pensando a cosa sarebbe stato di lui se a lei fosse accaduto qualcosa. Per questo motivo non rischiava più quando andava a caccia, si limitava alle prede facili. Erano lontani i tempi in cui si misurava con sé stessa per raggiungere una preda difficile o quando ingaggiava battaglie con altre tigri per il possesso di un pezzo di territorio o un boccone prelibato.
Il tempo passava, il tigrotto cresceva e diventava sempre più grande e forte. Ora giocava meno anche perché senza compagni e amici non era molto divertente. Andava in giro con la madre, a volte anche da solo, si aggirava nel folto della foresta guardandosi intorno. Ormai non sentiva più le frasi di scherno o le risatine degli altri animali. Lui era un cucciolo al contrario, ormai era la tigre al contrario e non poteva farci niente. Non sapeva e non avrebbe mai saputo perché non era come gli altri, perché la carne e la caccia lo disgustavano, perché non vedeva la maggior parte degli animali come prede, ma avrebbe voluto averli come amici. Cercava di non pensare che presto sarebbe venuta anche per lui la stagione degli amori, ma che nessuna femmina avrebbe voluto un compagno come lui, diverso dagli altri in modo incredibile. Non era una questione di strisce o di pelo o di colore degli occhi: la sua diversità era dentro di lui. Certo, aveva sempre sua madre. Poverina, si era sacrificata per stargli accanto e per proteggerlo quando era piccolo e ancora adesso, lui lo sapeva, da lontano vigilava sulla sua sicurezza, pronta ad intervenire in caso di necessità. Durante le sue peregrinazioni solitarie fantasticava su come sarebbe stato bello essere accettato, fare parte di quel mondo armonioso che lo respingeva. Lui si era sforzato, aveva tentato più e più volte di mangiare un pezzo di carne, ma il disgusto era stato insopportabile. Aveva cercato di concentrarsi su una preda, ma non riusciva a vederla con gli occhi di un cacciatore. Era tutto inutile, era condannato a una vita solitaria e infelice, poteva contare solo su sua madre finché era in vita. E poi? Preferiva non pensarci e lasciava scorrere tristemente i suoi giorni con la certezza che nulla sarebbe accaduto per mutare la sua condizione.
Ma il destino era in agguato. L’estate volgeva al termine e il caldo estivo era interrotto sempre più frequentemente da violenti temporali. Gli animali si rifugiavano nelle loro tane in attesa che gli scrosci d’acqua, i lampi che squarciavano il cielo e i tuoni che rimbombavano nelle valli si placassero.
Quel giorno il temporale si preannunciava particolarmente violento. Il cielo era una plumbea massa compatta di nubi solcate da lampi che si susseguivano senza tregua. Tutti si aspettavano che da un momento all’altro venisse giù il diluvio, ma non si era ancora vista una sola goccia d’acqua. I tuoni facevano tremare la terra e i cuccioli si stringevano alle mamme pieni di paura. Ad un tratto un fulmine colpì un vecchio albero cavo che con un fragore terribile si schiantò al suolo davanti all’ingresso di una caverna. Il fuoco divampò velocemente e ben presto si propagò alle sterpaglie che il caldo intenso dei giorni precedenti aveva fatto seccare. Gli animali guardarono terrorizzati quello spettacolo, poi si sentì un bramito fortissimo: era la mamma orsa, nella caverna c’erano i suoi due cuccioli, ma lei non poteva entrare a salvarli. Era troppo grossa e il fuoco impediva il passaggio. I suoi richiami disperati si levarono altissimi nella foresta, accorsero gli altri animali, ma nessuno aveva il coraggio di inoltrarsi in quel groviglio infuocato. I cuccioli avevano quasi quasi raggiunto l’uscita, spaventati anch’essi dal calore e dalle fiamme, ma erano arretrati immediatamente e ormai il fumo aveva invaso la caverna e diventava sempre più difficile respirare.
Giunsero sul posto anche la tigre e il tigrotto. Era una scena raccapricciante: mamma orsa si agitava e bramiva in modo straziante e i piccoli, prigionieri nella loro tana, si apprestavano a fare una fine atroce.
Ad un tratto, dal gruppo degli animali, con un balzo fulmineo si staccò il tigrotto e si infilò nella caverna. Tutti trattennero il fiato: cosa mai voleva fare quello strano animale? Cosa gli frullava in quella sua mente curiosa? Non sapeva che il fuoco è il nemico numero uno degli animali, il terrore delle tigri? Certo, da uno come lui c’era da aspettarsi di tutto! La tigre era impietrita, tesa e con i muscoli contratti fino allo spasimo. Il silenzio cadde sulla foresta, si sentiva solo il crepitio delle fiamme.
Dopo un paio di interminabili minuti il tigrotto riapparve con un cucciolo in bocca. Lo depose ai piedi dell’orsa e velocemente tornò nella caverna. Il fumo era diventato una spessa coltre che impediva di vedere e di respirare, ma lui procedeva sicuro e veloce. I suoi potenti occhi di felino riuscivano ancora a intravedere qualcosa. Il flebile lamento del secondo cucciolo lo guidò in fondo alla caverna. Il piccolo era quasi svenuto. Lui lo prese delicatamente fra le labbra, come aveva fatto col fratello e cercò di raggiungere nel più breve tempo possibile l’uscita. Fuori aveva cominciato a piovere e l’acqua stava lentamente spegnendo l’incendio. Nonostante gli scrosci di pioggia, gli animali non si erano mossi e aspettavano col fiato sospeso di vedere il tigrotto uscire dalla caverna.
Ed eccolo finalmente comparire con il suo prezioso carico. Depose anche il secondo cucciolo ai piedi dell’orsa e si accasciò per terra, sfinito dalla stanchezza e dalla fatica. Aveva gli occhi rossi, il pelo bruciacchiato e respirava a malapena, ma ce l’aveva fatta: i due orsacchiotti erano salvi.
La tigre si avvicinò al suo cucciolo al contrario e prese a leccarlo con amore per liberarlo dalla fuliggine. Dopo essere rimasti per qualche minuto in silenzio, gli altri animali, con mamma orsa in testa, fecero corona intorno ai felini. Gli orsacchiotti, ripresisi dallo spavento, si avvicinarono al tigrotto e ingaggiarono con lui un’amichevole lotta: era il loro modo di ringraziarlo. Il tigrotto non credeva ai suoi occhi, in fondo aveva fatto soltanto ciò che gli aveva suggerito l’istinto ed essendo un cucciolo al contrario non aveva alcuna paura del fuoco. Gli animali lo festeggiarono a lungo e lo elessero il più coraggioso della foresta. Da quel giorno i due orsacchiotti diventarono i suoi inseparabili compagni di giochi e di avventure e lui ebbe il rispetto e l’affetto incondizionato di tutti gli animali della foresta i quali avevano dovuto fare i conti con la loro diffidenza e le loro stupide idee preconcette. In fondo sarebbe bastato guardare un po’ più in là del loro naso per capire che dietro quelle apparenti stranezze c’era un animale come loro, forse migliore di loro.
Così il tigrotto poté finalmente assaporare la gioia dell’amicizia e dell’affetto e la vita, che fino a quel giorno gli appariva triste e solitaria, si apriva davanti a lui come un sentiero fiorito e luminoso lungo il quale avrebbe raccolto amore e felicità.