Periferia di Resto, cittadina ‘vivi e lascia vivere’ delle Marche, anni ‘60 circa.
La famiglia Belletti s’era trasferita da poco dall’entroterra, per una nuova e meglio retribuita attività lavorativa del capofamiglia.
Provenivano, per la precisione, da Sant’Ubaldo in Aso, un piccolo centro arroccato su una delle mille verdeggianti colline della zona e dove erano pressoché nulle le possibilità lavorative se non nella mezzadria o nell’artigianato, ambiti peraltro già saturi. E che dire poi delle scarse interazioni sociali se non per festività religiose o legate alle necessità quotidiane?
Era già un evento, lassù tra quelle colline, andare a far spesa allo spaccio ‘Da Alfonsina’ , unico punto vendita disponibile.
Era mini bazar dove si potevano trovare esposte mortadella, tagli di stoffa, barattoli aperti di sardine e sigarette nel giro appena di un metro di bancone… e poi quella benedetta Alfonsina, dagli strani risucchi salivari in bocca, afferrava questo e quello senza scrupolo alcuno per l’igiene.
Ma quell’etto di mortadella incartato con cura nella carta oleata era una tentazione olfattiva irresistibile per la piccola Giulia nel tornarsene a casa dopo aver assolto all’incarico che le era stato assegnato. Infatti sperava sempre che fuoriuscisse un lembo di quella goduria da poter strappare, rubare furtivamente ed infilare in bocca prima di giungere a casa.
Pochi passi in quel mondo ristretto che però le dava sicurezza e le bastava.
Ma adesso a Resto era tutto diverso ed estraneo: tantissimi negozi certamente molto più puliti e riforniti, ma anche tante facce fredde e sconosciute.
“E che ci faccio io qui ?”, si chiedeva intimorita.
Non conosceva infatti le vie, i luoghi e non aveva esperienze vissute condivise su cui basare una conversazione con i compagni di scuola con i quali restava pertanto sempre muta e in disparte.
Aveva bene a dire la mamma :” Dai scendi qui sotto nel cortile, ci sono altri bimbi! Fai amicizia con loro…”
Ma come fare, mica l’avevano invitata e poi mica puoi obbligarli a diventare amici tuoi!
Una volta, però, a furia di sentirselo ripetere, aveva provato a farlo ed era scesa giù di sotto.
Era rimasta imbambolata ed immobile per tre -dicasi-tre- minuti sul varco del portone d’ingresso ad osservare i coetanei correre e giocare, finché improvvisamente l’aveva assalita un’acuta sensazione d’estraneità ed inadeguatezza ed era fuggita via… tra gli sguardi perplessi di tutti.
Il tempo passava senza che Giulia si facesse uno straccio d’amica o di amico e la cosa intristiva molto il cuore della signora Gianna nel vederla sempre così sola e pensierosa. Così decise di prendere in mano la situazione ed invitare per un thè la signora Monia Ceri del terzo piano, a suo avviso tanto a modo e gentile, una vera signora raffinata di città.
Lo scopo era quello di coltivare quella nuova conoscenza e soprattutto perché era la mamma di Pietro, un maschietto di due anni più grande di Giulia.
Così, un bel giorno, ecco entrare in casa, sorridente e tirata a lustro, la signora Monia accompagnata da un riottoso ed immusonito Pietro.
“ Uffa però queste femmine! Adesso mi tocca stare con quella smorfiosa… e di che gli parlo? Quanto mi rompe!” Questi erano i pensieri che chiaramente lo sguardo di Pietro rivelava.
Ma la mamma: “ Dai Pietro, vai dalla bimba! Ti mostrerà i suoi giocattoli…”
Allora Giulia un po’ sollevata perché almeno sapeva cosa fare e da dove iniziare gli mostrò orgogliosa le sue bambole con le pentoline ed i vestitini per giocare. Pietro si ritrovò in mano una leziosissima bambolina, roba del tutto sconosciuta per lui. La osservò un attimo chiedendosi quale uso potesse farne ed iniziò così a rotearle le braccia quasi fossero delle pale di un elicottero. Poi la lanciò in aria facendola precipitare dietro ad un divano e, per completare l’opera, ci si tuffò sopra. Giulia, che era rimasta inizialmente pietrificata con le tazzine per giocare alle signore in mano, si precipitò a vedere se la bambola si fosse fatta male. E …ahimé! Era roba proprio gravissima, da Pronto Soccorso: un braccio s’era divelto, la testa era schiacciata ed una gamba tutta ammaccata. Di fronte a tanta e per lei inspiegabile violenza, iniziò a piangere disperata e si mise a sedere sul divano a coccolare e curare la sua bambola.
“ Pietro! Cosa le hai fatto… chiedile subito scusa” lo rimproverò la signora Monia senza troppa convinzione in quanto molto più interessata a parlottare fitto, fitto con Gianna di pettegolezzi condominiali ed amenità varie.
“ Mai chiedere scusa ad una femmina! Manco morto e poi io non ci volevo proprio giocare con questa” pensava tra sé e sé Pietro poiché questo era ciò che gli avevano insegnato i compagni più grandi, quelli che lui ammirava tanto perché si mostravano sicuri di sé e sapevano sempre cosa fare.
E intanto Giulia pensava, mentre si asciugava le lacrime,: “ Brutto cretino! Sei uno scimmione cattivo. Non ti voglio più vedere.”
Su quel divano , anziché un’amicizia, nacque così quella sera una lunga, solida e duratura storia di antipatia corrisposta che si protrasse negli anni a venire.
Si ignoravano e detestavano.
Certo, e chi se ne frega di lui… e chi se ne frega di lei.
Poi un giorno, verso i 17 anni, Giulia stava scendendo le scale per andare con le amiche che finalmente aveva conosciute via, via nel tempo.
I capelli biondi ondulati le ondeggiavano sulle spalle, una minigonna da urlo regalava agli occhi un paio di gambe snelle e tornite che non finivano mai . Il trucco scuro risaltava i suoi occhi chiari.
Pietro la vide venirgli incontro scendendo giù per le scale e lo sguardo era stranamente dritto nel suo.
Non poté non guardare.
E ne restò secco, folgorato.
Stavolta sentì una gran voglia di giocare con lei.
Immagine dal web