Famiglie
Angie Rose era andata a vivere in quel condominio abitato da vedove e pensionati, perché la zona era tranquilla, l’affitto buono e le era permesso di tenere Hamlet, il suo cane lupo. Così s’erano installati nel piccolo appartamento all’ultimo piano, senza ascensore, con vista su un cortiletto interno buio d’inverno così come d’estate. Ma questo non era un cruccio per lei che di tempo per guardare il paesaggio ne aveva poco, e comunque avrebbe colmato l’assenza di luce e di sole con le passeggiate quotidiane al parco per sopperire alle necessità di Hamlet.
Angie Rose si rammaricava solo di non poter offrire al suo cane uno spazio più ampio (avevano sempre abitato appartamenti molto piccoli) magari con un giardinetto, e più tempo per le uscite al parco. Ma Hamlet s’era sempre adattato a quelle carenze senza mai mostrare insofferenza: era un cane molto collaborativo e di questo gliene era grata. Lui era tutta la sua famiglia, ovvero quella che lei si era scelta. L’altra sua famiglia, invece, era quella del “Gina Colombo’s Restaurant” a Brooklyn, dove lei svolgeva la mansione di cameriera. Gina Colombo, la proprietaria, una gigantessa barocca dai capelli corvini e dagli occhi di smeraldo, americana di origini genovesi, s’era conquistata la notorietà non solo per la bontà della sua cucina ma per la sua voce prodigiosa che propagava, come un’eco smerigliata, dal retro della cucina e culminava nel prodigio della frantumazione dei bicchieri e dei cristalli. Allora scattava la standing ovation di quelli seduti ai tavoli e di quelli fuori la porta, inchiodati sul marciapiede dalla potenza dei suoi assoli. Perfino ad Hollywood s’erano interessati a lei, ma lei aveva liquidato la faccenda con un sarcastico: non sono un fenomeno da baraccone!
A Broadway, invece, mirava Angie Rose, motivo per cui risparmiava sui metri quadrati delle sue abitazioni e investiva il suo stipendio nella prestigiosa, e costosissima, scuola di recitazione di Alfred Hayden, un tempo enfant prodige del teatro, la cui carriera era stata stroncata da un incidente stradale che lo aveva inchiodato su una sedia a rotelle, che aveva reso il suo carattere, di natura altezzoso, ancor più intollerante ed aspro. Ma pure i giovani aspiranti attori si sottomettevano alle umiliazioni delle sue sfuriate, perché in assoluto era ancora il più bravo, il più talentuoso attore di teatro che avesse mai calcato un palcoscenico. Avere accesso ai suoi corsi era già di per sé un attestato di merito, perché la selezione era severissima ed intransigente.
Per la sua innata predisposizione alla recitazione, Angie Rose era entrata nell’elite della “Alfred Hayden Acting School”
Quel tardo pomeriggio, come di consueto, Angie Rose si diresse in metro al ristorante di Gina, in compagnia di Hamlet, al quale era permesso di attendere la fine del turno di lavoro, nel cortile sul retro della cucina, dove era stata per lui predisposta una comoda cuccia. Ma in caso di freddo eccessivo o pioggia, preferiva lasciarlo a casa, al caldo e al coperto.Hamlet era la mascotte della piccola famiglia del “Gina Colombo’s Restaurant” che tra i suoi membri annoverava Apache, il braccio destro della proprietaria, Jean Baptiste Cassel lo chef e Marta Oropeza l’aiuto chef. Loro erano il nucleo fisso intorno al quale ruotavano figure di supporto, come un gruppetto di camerieri volanti e un paio di cuochi freelance, da chiamare in caso si necessitasse di un aiuto aggiuntivo o di una sostituzione.
Uno staff molto unito, soprattutto nei momenti più difficili, come quando il celebre critico culinario, Jordan Baker, con un articolo al vetriolo, così descrisse il locale: “Al “Colombo’s Restaurant” non si va per mangiare, perché la cucina sinceramente è scadente: i piatti sono commestibili ma alquanto indecifrabili, per cui non conviene indagare sul loro contenuto, che per altro neppure è interamente riportato sulla lista del menù. E non ci si va neppure per bere, visto che spesso i bicchieri finiscono in frantumi, demoliti dalla potenza vocale della proprietaria. Il “Colombo’s Restaurant” deve il suo successo unicamente a questo curioso spettacolino messo in scena per attirare i clienti che altrimenti diserterebbero il locale.”
Quell’articolo aveva mandato su tutte le furie Gina che non ebbe timore di andare a casa di Jordan Baker e ridurgli in pezzi vetri e cristallerie, non con la potenza della sua voce ma con una mazza da baseball.
Respinse le dimissioni di Jean Baptiste, mortificato per il mancato apprezzamento della sua cucina, deciso a tornarsene in Francia dove era certo avrebbe ricevuto più degni riconoscimenti.
«Non dovrai temere la mia concorrenza, Gina, ci sono troppi chilometri di distanza fra New York e Parigi» Poi, con un sospiro, aggiunse: «E comunque a te non farei mai concorrenza».
Lei lo rassicurò: «Se abbiamo il locale pieno tutte le sere, Jean Baptiste, è per merito della tua cucina. Nessuno è così stupido da spendere i propri soldi per procurarsi un’indigestione, motivo per cui tu rimarrai qui a fare la concorrenza a tutti gli altri ristoranti di Brooklyn».
La querelle tra Gina Colombo e Jordan Baker si spostò dalle colonne dei giornali all’aula di un tribunale dove prevalse la tesi di lei “nessuno è così stupido da spendere i propri soldi per procurarsi un’indigestione”. E a testimoniare in suo favore si proposero molti dei suoi clienti. Jordan Baker venne condannato al pagamento di un’ingente cifra, risarcimento per i danni arrecati da quella sua pubblicità negativa, tesa al dileggio.
«La signora Colombo è una potenziale avvelenatrice». Tuonò il critico culinario, alla lettura della sentenza.
«Ma a quanto pare, signor Baker, il giudice non è dello stesso parere, visto che é vivo e vegeto e cliente abituale del mio ristorante». Fu l’ironica risposta di lei.
Il risarcimento fu diviso da Gina tra i suoi collaboratori, con una piccola maggiorazione per Jean Baptiste, ferito nell’orgoglio.
«In famiglia si divide ogni cosa. E noi siamo una famiglia!» Fu questa la sua motivazione per quel premio extra.
Ed era vero che considerava i suoi collaboratori la sua famiglia. Rimasta vedova ancora giovane e senza figli, non s’era più risposata, nonostante le innumerevoli richieste e i tanti corteggiatori, s’era goduta in piena libertà il ricco lascito del marito, un alto dirigente della Citibank. Tolti gli sfizi e le curiosità, s’era ripresa il proprio cognome e lanciata nell’imprenditoria, aprendo quel ristorante a Brooklyn. Della sua famiglia d’origine, una delle più facoltose e in vista della città, non ne parlava mai, e nessun suo parente era mai venuto a farle visita al ristorante.
Jean Baptiste era stato il secondo, dopo Apache, ad essere ingaggiato stabilmente, da Gina.
Reduce del naufragio del mercantile che lo aveva condotto a New York, (dove s’era pagato il viaggio svolgendo mansioni di aiuto cuoco) e a quello ancor più devastante della sua vita a Parigi, (una storia d’amore finita male, era il motivo per cui s’era imbarcato) era approdato a Brooklyn, determinato a spuntarla sul destino malevolo, ed era capitato sul marciapiede del Colombo’s Restaurant proprio il giorno che lo chef s’era licenziato per passare alla concorrenza, portandosi via anche l’aiuto cuoco. Attirato dalle voci provenienti dal retro della cucina, s’era affacciato giusto in tempo per vedere quello darsela a gambe sotto la minaccia di un coltellaccio brandito da una gigantessa vestita di azzurro e rilucente di ori: una Liz Taylor dagli occhi verdi e in versione macro.
«Jean Baptiste Cassel; di professione chef, e per voi l’uomo della provvidenza». Si presentò con grande savoir fair e molta faccia tosta. Sorridente, senza però mai perdere di vista il coltello di cui lei armata, e pronto alla fuga se avesse dato segni di nervosismo.
Ma alla vista di quel giovane mingherlino, con due grandi occhi scuri e le orecchie a sventola, lei era scoppiata a ridere: «Davvero sei un cuoco? E cosa cucini, le pappe per i neonati?»
«Ho molti più anni di quelli che dimostro, Madame» Aveva risposto compunto Jean Baptiste.
«E sei anche l’uomo della provvidenza, eh?»
«Oui, madame» Asserì, senza nessuna ironia
« E forse è vero, visto che non ho alternative. Seguimi, che ti mostro la cucina» Disse Gina, di natura scaramantica, incline ad interpretare quella situazione come un segno del destino.
Se l’incontro con Jean Baptiste era stato casuale, quello con Marta Oropeza, fu da lei stessa programmato. Gina vedeva tutti i giorni la giovane messicana giungere con un carretto carico di cibarie e posizionarsi sul marciapiede opposto a quello del suo ristorante, vicino la fermata dei bus. In ogni stagione, e con qualsiasi tempo, lei era sempre a quella sua postazione a cielo aperto. Impossibile non notarla con quelle sue bluse dai colori sgargianti che nelle giornate grigie risaltavano come spruzzi di arcobaleno. Per Gina era diventata un’abitudine vederla col suo carretto sul marciapiede di fronte, così quando per un certo periodo la giovane disertò il suo posto, lei s’interrogò sui possibili motivi. Non era banale curiosità la sua, ma davvero avrebbe voluto sapere cosa le era accaduto, rimproverandosi di non aver mai tentato un approccio più diretto, limitando i contatti all’acquisto di qualche sua prelibatezza. Ma poi riapparve al suo solito angolo e quel giorno, complice una pioggia torrenziale ed improvvisa, Gina afferrò due ombrelli e la raggiunse per offrirle un riparo nel suo ristorante. Scoprì che Marta era la terza dei sei figli di una famiglia numerosa e che quella piccola attività abusiva era per incrementare il bilancio famigliare. La sua assenza era dipesa dal fatto che i due fratelli più piccoli, gemelli, avevano contratto entrambi l’influenza e dal momento che né il padre e neppure le due sorelle più grandi potevano permettersi assenze dal lavoro, era toccato a lei accudirli, perché la mamma, malata di cancro, per evitare contagi s’era trasferita da una zia.
Marta raccontò la sua storia senza acredine e senza lamenti, e questo la colpì molto, così le propose di lavorare nel ristorante, come aiuto cuoca: «Avrai uno stipendio garantito e non dovrai stare tutto il giorno, e con qualsiasi tempo, per strada. Ma se non ti dovessi trovar bene potrai sempre riprendere la tua attività». Le propose Gina nel suo modo schietto.
Marta accettò grata. Il difficile, invece, fu convincere Jean Baptiste che vedeva in quell’intrusa nella sua cucina un impaccio più che un aiuto, di cui lui, asseriva, non aver assolutamente bisogno.
«In questo modo, Jean Baptiste, avrai più tempo per elaborare le tue ricette, e Marta, invece, espleterà tutte quelle noiose incombenze da mozzo di cucina e non da chef».
Gina argomentò a lungo e in maniera convincente, finché lui non oppose più obiezioni. E così, Jean Baptiste si trovò a condividere lo spazio sacro della sua cucina con quella giovane maya, dai dolci occhi a mandorla e i lisci capelli neri.
E non tardò molto a provare per lei un affetto sincero.
Apache, (all’anagrafe Russel Joseph Littlefeather), invece, era con Gina fin dall’inizio della sua avventura da imprenditrice, perché lavorava nella squadra edile adibita alla ristrutturazione del ristorante, e quando i lavori furono terminati lei lo assunse come factotum, per una serie di motivi, primo fra tutti perché Apache l’aveva salvata da un tentativo di stupro, in pieno giorno, ad opera di un balordo che lui aveva spedito prima all’ospedale e poi in galera. Il muscoloso pellerossa in gioventù era stato uno stunt man molto famoso, ma poi una banale caduta dalle scale lo aveva reso zoppo ed inabile alla sua spericolata professione. Dalla depressione scivolò nell’alcolismo. Da quell’inferno emerse grazie all’aiuto devoto di un’assistente sociale che s’era innamorata di lui, e dopo averlo aiutato a risollevarsi gli offrì anche il suo cuore. Apache quello non poté accettarlo ,ma le promise, però, che non avrebbe vanificato il percorso fatto. E fu di parola. Nonostante il suo handicap, grazie al suo fisico muscoloso, aveva svolto mansioni di facchino, scaricatore, operaio edile, e buttafuori.
Fino al momento in cui entrò in scena Gina Colombo che lo assunse come uomo di fiducia.