La prima volta che sono entrata in una casa di riposo non sapevo bene cosa aspettarmi. Tutto era nuovo per me. Avevo da poco conseguito il mio diploma di fisioterapista e mi ero trasferita da poco in Lombardia, in una cittadina vicino Milano… anzi più che trasferita mi ero “sparaflesciata”, nel senso che da un giorno con l’altro avevo lasciato la mia piccola città di provincia in Puglia per iniziare a lavorare a Milano, nella casa di riposo “S. Rita” per l’appunto.
Ero sempre stata lì, nata e cresciuta, nella mia città… dove tutti sanno tutto di tutti e tutti ti parlano insieme, perché sanno che sei la figlia, la sorella o la vicina di casa di un qualcuno che vagamente conoscono. Professionalmente avevo solo l’esperienza di uno studio privato dove si lavorava a cottimo; il metro di valutazione della qualità assistenziale si basava su quanti pazienti riuscivi a trattare nel migliore dei modi ma nel minor tempo possibile. Mi sentivo come un’operaia in una catena di montaggio di membra umane…. era tutto un susseguirsi di spalle, ginocchia, schiene, piedi, mani…senza avere a volte il tempo di capire o guardare a chi appartenessero…come se fossero pezzi di corpi a staccati e non parte di un qualcosa di più complesso chiamato individuo.
Una mattina di aprile arrivò il mio fatidico primo giorno alla casa di riposo “S.Rita” e partii verso la grande metropoli con il mio look casual-elegante studiato a tavolino e la borsetta carica di incertezze, poiché non sapevo bene né dove andare né cosa fare. Il filo argomentale del mio cervello non coincideva con quello del cuore e dei piedi; le sinapsi non erano collegate in quanto i piedi, spinti dal cuore, volevano dirigersi nella direzione opposta a quella voluta dal cervello. Nonostante tutto cercavo di non dare ascolto alla mia vocina interiore che si chiedeva perché diavolo non fossi rimasta in Puglia a godermi il sole, il mare e lo stress della mia assurda catena di montaggio.
Al mio arrivo sono stata accolta dalle sorellastre di Cenerentola, il che non è stato un buon inizio. Anastasia e Genoveffa erano due colleghe, prototipo del milanese snob imbruttito che, tronfie della loro esperienza “professionale e non” da cittadine del mondo, erano venute ad accogliere la povera “terrona” venuta dritta dritta dal paesucolo del sud con l’intento di farla sentire a disagio. Già dalle prime parole non hanno perso occasione per evidenziare la loro raffinatezza, ricchezza e nobiltà d’animo e, per cercare di attentare alla mia autostima, continuavano a ridacchiare alle mie spalle. Probabilmente avevano scommesso che dopo un paio d’ ore al massimo me la sarei data a gambe. In realtà le mie due sorellaste acquisite (visto che la cenerentola in questione ero io) erano professionalmente preparate, sicuramente più di me, ma di fatto avevano una spinta motivazionale pari a quella di un criceto, in quanto trascorrevano gran parte della loro giornata lavorativa a sgranocchiare patatine. Ovviamente mi hanno catapultato in quello che doveva essere il mio reparto e mi hanno mollata lì, come un sacco di patate, senza un briciolo di spiegazione o uno straccio di presentazione a qualcuno di un qualcosa. Sono scomparse dopo un secondo…sentivo solo l’eco fastidioso delle loro risate.
Così in un lampo mi ritrovai al 2° piano di quell’edificio spoglio, un po’ troppo triste e anonimo, circondata da una moltitudine di anziani in carrozzina o, per lo meno, a me sembravano tantissimi. Erano tutti lì, in fila, chi in carrozzina, chi in poltrona, grottescamente schierati a formare un esercito che mi faceva sentire indifesa. Mi sentivo piccola e inutile. La maggior parte di quei visi rugosi mi ignorava, qualcuno distrattamente mi osservava, qualcuno aveva gli occhi troppo spenti per vedere, qualcuno sembrava un corpo senza voce. Solo una signora mi venne incontro con fare deciso. Si chiamava Gemma.
Gemma era alta, massiccia, irsuta, complessivamente poco femminile perché da sempre poco avvenente, ma con gli occhi estremamente dolci. Mi apparve come un raggio di sole in uno scenario che in quel momento mi sembrava squallido e surreale. Fu lei a guidarmi in quel labirinto ed a darmi le prime indicazioni su come muovermi e cosa fare. Fu lei ad accompagnarmi nell’ambulatorio medico e a presentarmi alla Dottoressa con la quale avrei dovuto lavorare. Così, passo dopo passo, giorno dopo giorno cominciai ad ambientarmi in quel mondo sconosciuto. Gemma era in trattamento quotidiano, aveva una pregressa frattura di femore per cui doveva recuperare la stazione eretta e la deambulazione; ero contenta di vederla sempre, rappresentava un’ isola felice per me che, in quei primi giorni, mi sentivo ancora un pesce fuor d’acqua.
Pian piano iniziai a comporre il puzzle della sua vita. Aveva sposato un vedovo quando ormai era convinta di non avere più speranze di infilare la tanto agognata fede al dito, ma non aveva avuto figli, non perché lei non li volesse ma perché come suo compito prioritario doveva accudire quelli del marito. Non c’era posto per il suo desiderio di maternità in quella vita. Non c’era posto per l’amore.
Mi raccontò un episodio estremamente bizzarro. Il marito di Gemma un bel giorno si presentò a casa con una cagnolina alla quale aveva dato il nome della sua prima moglie, Antonietta. Antonietta diventò la regina della casa; veniva curata, coccolata, persino viziata, era trattata come una principessa. Il marito di Gemma sembrava estasiato dalla presenza del cane Antonietta mentre la povera irsuta Gemma faceva da cameriera in casa sua e nessuno si curava di lei. Un giorno il marito, se pur accecato dall’amore per Antonietta ma disturbato dall’odore del suo essere cane, decise, per darle un tocco di raffinatezza, di farle un bagno prolungato e di profumarla con un’essenza di lavanda, proprio come se fosse una femmina vera. La delicata Antonietta non sopravvisse a quell’intensivo trattamento di bellezza e di conseguenza in casa rimase, come unica presenza femminile, la povera Gemma con la sua corporatura massiccia ed i suoi baffi evidenti.
Da quel giorno però il marito sembrò rinsavire. Finalmente consapevole di aver trattato un cane come una moglie ed una moglie come un cane, decise di prendersi cura della donna che aveva sposato. La guardò dentro, per comprendere la sua anima la aprì come una matryoshka e finalmente diventarono una coppia vera. Se pur in quel matrimonio non ci fossero impeti di passione, i due avevano una vita condivisa fatta di piccoli gesti propri della quotidianità e si accompagnarono serenamente l’un l’altro nella vecchiaia. Quando morì il marito, Gemma decise da sola il suo destino; l’istituzionalizzazione era l’unica alternativa possibile alla solitudine completa, visto che i figli di suo marito, pur essendo stati seguiti ed amati dalla povera Gemma, non erano affezionati a quel surrogato di mamma, per cui si limitavano a dispensare visite e/o telefonate di circostanza alle feste comandate.
Col passare dei giorni avevo imparato che prima di andar via dovevo passare a salutare Gemma, altrimenti ci rimaneva male. Se avevamo cinque minuti in più Gemma tirava fuori dal suo armadio un qualcosa che custodiva gelosamente e a cui nessuno aveva accesso. Era una scatola di latta, come quella rotonda dei biscotti buoni, nella quale Gemma ci teneva la sua vita e lo ribadiva ogni volta che la osservava. C’erano fotografie della sua infanzia, di suo marito con il cane Antonietta, medaglie al valore di un fratello morto in guerra, l’anello della nonna, lettere di un amore mai nato perché non corrisposto. Io non riuscivo a capire come si potesse marginalizzare così una vita e racchiuderla in una scatola. Gemma mi guardava e sorrideva, mi diceva che la sua non era stata una vita ricca e che nella scatola ci stava tutta; ma ogni cosa, ogni elemento di quella scatola aveva una valenza ed era essenziale perché rappresentava un momento simbolico di un qualcosa di importante. Per questo la custodiva gelosamente, per questo tutte le cose erano cronologicamente e metodicamente ordinate in una classifica che solo Gemma conosceva. Quella scatola di vita dava un senso alle sue giornate.
Pian piano mi affezionai anche agli altri ospiti ed imparai a conoscerli bene. C’era Irma con i suoi deliri che mi diceva di stare attenta perché in giro c’erano i tedeschi che razionavano il cibo ed imponevano il coprifuoco. C’era Paolo il latin lover, vestito di tutto punto, che ogni giorno tentava disperatamente di baciare la Signora Giulia ma forse non ricordava neanche bene il perché di tutto quell’affanno. C’era Olga con il suo corpo violato che da giovane aveva subito uno stupro e ne sentiva ancora addosso la paura e l’odore. C’era Eva che ogni volta che qualcuno le diceva che aveva un bel nome iniziava a sviolinare tutta una serie di imprecazioni ripetendo il suo nome infinite volte. C’era Pino il guerriero che era tornato a piedi dalla Russia ed ogni tanto aggrediva il suo compagno di stanza perché lo credeva alleato dei polacchi. C’era Renato che trascorreva gran parte del suo tempo a progettare piani di fuga che immancabilmente fallivano ma costringevano il personale di assistenza ad inseguirlo per tutta la struttura. C’era Silvano con lo sguardo vagamente consapevole ed il suo corpo senza voce. Per guardare tutte queste persone avevo dovuto indossare un altro paio di occhiali ed ero entrata in un’altra dimensione. Ogni giorno mettevo qualcosa in borsa; un sorriso, un gesto o un ricordo di qualcuno e tornavo a casa contenta.
Le mie giornate lavorative trascorrevano piacevolmente tranne quando avevo, per forza di cose, contatti con le sorellastre di Cenerentola; ogni volta che mi vedevano continuavano a ridacchiare e trascorrevano sempre la maggior parte del loro tempo a sgranocchiare rumorosamente patatine. In realtà il loro comportamento mal si addiceva all’etichetta di fascinosa raffinatezza che si erano autonomamente appiccicate addosso. Invece gli anziani avevano appiccicato a me l’etichetta di “quella brava” per cui mi dispensavano sorrisi, mi regalavano caramelle, mi raccontavano le loro storie. Ascoltavo le farneticazioni di Irma e di Pino, ridevo con Eva, cercavo di dare consigli a Giulia che mi parlava dei goffi tentativi del povero Paolo, guardavo negli occhi Silvano. Ero passata da operaia di una catena di montaggio di membra umane al fare con calma, dare tempo, sapere ascoltare, sapere aspettare. Nel mio vocabolario c’erano nuove parole che avevano un peso: sintonia, empatia, assertività, pazienza. Avevo sviluppato una sensibilità nuova, avevo affinato la mia capacità di ascolto, avevo imparato a ragionare con gli occhi, avevo capito che l’assenza di responsività non necessariamente corrisponde all’assenza di consapevolezza, avevo visto l’importanza delle piccole grandi cose e della parola dignità, avevo imparato a pesare i ricordi.
Appena potevo davo una sbirciatina a Gemma; ella non amava gli spazi comuni, le feste, il chiasso, lo stare in gruppo; la trovavo sempre nella sua camera, intenta ad esaminare le sue cose del suo piccolo mondo in scatola. A volte bussavo, entravo e facevo due chiacchiere con lei, a volte semplicemente mi limitavo ad osservarla; anche se era da sola non era isolata, era nel suo mondo che, se pur staccato da quello reale, aveva un senso. Il senso dei ricordi.
Un giorno però sono dovuta andare via. Nonostante mi fossi ben ambientata in quel mondo che inizialmente mi sembrò surreale, colsi al volo un’opportunità che mi consentiva di uscire dal vortice del pendolarismo. Così sparii all’improvviso, da un giorno con l’altro, proprio come ero arrivata. Qualcuno dei miei ospiti era rammaricato, altri non se ne sono neanche accorti… o forse si…chissà. Ovviamente mi è dispiaciuto salutare Gemma, sapevo che non l’avrei più rivista. Nella tristezza del mio ultimo giorno, poco prima di andar via mi ha chiesto di fare una foto insieme. Sono finita nella sua scatola per sempre.