Quando ti ho visto per la prima volta eri lì, seduta, in un angolo, sola, inavvicinabile, in silenzio. I capelli grigi crespi ed arruffati, la testa china, gli occhi troppo grandi per quel viso minuto, lo sguardo torvo ma non spento, le labbra chiuse, inespressive, da cui traspariva solo la non voglia di proferir parola. Era palpabile nell’aria che volevi vivere nel tuo mondo; come un contadino avevi piantato i tuoi paletti, come un soldato avevi costruito la tua trincea, come un cane avevi delimitato il territorio e stavi lì, sempre da sola nel tuo angolo oscuro, con l’anima invalicabile.
L’unica nota di colore in quel quadro di tetra mestizia erano un paio di pantofole di Betty Boop rosa confetto, troppo sformate e grandi per essere comode, ma da cui non ti volevi assolutamente separare. Vivevi in casa di riposo ormai da tanti, troppi anni; tutti ti conoscevano come Olga la matta e tutti ti evitavano sia per rispettare il tuo desiderio di solitudine, mai palesemente espresso, sia perché intorno a te c’era un’aura magneticamente inquietante.
Non volevi essere toccata da nessuno. Avevi la pretesa di provvedere da sola alla tua igiene, purtroppo con scarsi risultati… infatti ogni tanto, su ordine medico, il personale di assistenza era costretto a farti il bagno; e ti assicuro che nessuno si offriva volontario.
Dopo pianti, morsi, improperi irripetibili (quella era una delle rare occasioni in cui potevamo ascoltare la tua voce) venivi fuori dal bagno vagamente pulita, con lo sguardo vispo ed un po’ birichino; la linea della bocca accennava ad un sorriso per la consapevolezza di essere stata la protagonista assoluta in quel teatrino di pura follia.
Solo i capelli, specchio della tua anima inquieta e ribelle, rimanevano dritti, indomiti, ingestibili, e circondavano il capo come una corona di spine, per emulare un Cristo ferito col cuore piagato. Nessuno voleva avere a che fare con Olga la matta.
Secondo la mia teoria non eri né demente né pazza. Per me il tuo cervello funzionava ancora ma per i medici l’orientamento temporo/spaziale non era valutabile. Per me il tuo pensiero logico era vivo, ma tacito ed offuscato dal delirio. Era evidente che parlavi con gli occhi e ragionavi col cuore. Eri quasi sempre muta tranne quando, nei giorni di pioggia battente, aprivi la finestra ed urlavi con violenza tutta la tua rabbia. Dicevi frasi sconnesse, parlavi di uomini, ferite, sangue, umiliazione. Questo tipo di manifestazioni fa paura a noi umani… e tu sembravi più un essere soprannaturale.
Il delirio può essere gestito, ma bisogna avere competenza e sensibilità per farlo. In quella situazione, pur essendo forniti degli strumenti validi di preparazione teorica, nessuno sembrava avere la chiave di volta per capire e farti tornare in te. Il risultato fu che ognuno reagisse come meglio credeva: i più timorosi scappavano inventando incarichi improvvisi, i più cretini ridevano e commentavano senza batter ciglio, i più volenterosi ti tiravano dentro con forza per farti smettere, prima che la furia del temporale, sommata al pianto e alla rabbia, ti devastassero completamente.
Per molti di noi eri una paziente poco desiderabile, per i medici un caso complesso.
L’unica persona che veniva a trovarti e che sembrava mettere ordine nel marasma che albergava nella tua mente era Amelia, tua nipote. Amelia aveva da poco compiuto 50 anni, tu ne avevi 64; era una donna dall’aspetto poco curato ma rassicurante e ti somigliava tanto. Anche lei aveva gli occhi troppo grandi per quel viso smunto, anche lei aveva capelli ribelli che tentava di domare in una pettinatura vagamente glamour.
Vestiva sempre con dei camicioni informi, vistosamente colorati, indossava strani cappelli a falde larghe e delle ballerine retrò a cui abbinava improponibili calzini corti bianchi. Se l’avesse vista uno stilista, avrebbe definito il suo outfit un crimine contro la moda, un insulto al buon gusto, ma lei se ne fregava e per questo suscitava la mia simpatia. Al contrario di te Amelia era socievole e chiacchierona. Cercammo di comporre con lei il puzzle della tua storia di vita per capire l’origine dei tuoi deliri ma Amelia sembrava non sapere molto e non aveva molto da dire; sintetizzando, in due parole ci raccontò che avevi sempre vissuto in campagna con i tuoi genitori, che avevi un’unica sorella più grande (mamma di Amelia), e che eri stata sempre ostile ad ogni essere umano tranne lei, piccola bambina riccioluta.
Sorrideva Amelia quando ci raccontava che da bambina qualcuno (forse proprio tu, zia Olga?), aveva inculcato nella sua mente la convinzione che tu – per tutti una pazza da allontanare – in realtà fossi una fata proveniente da un altro pianeta. E lei, la piccola Amelia, era una creatura privilegiata in quanto rappresentava il canale di comunicazione tra questa fata straniera ed il resto del mondo. Questa sconcertante scoperta forse un giorno l’avrebbe resa famosa. Nella crudezza del mondo reale però tu Olga eri considerata una tipa strana e, per questo motivo, pur essendo bella, nessuno aveva mai osato chiederti in moglie.
Una mattina ti trovarono così … inerte e immobile… nel riposo assente delle cose morte e delle anime perse.
Eri sdraiata sul letto con ai piedi le tue inseparabili pantofole di Betty Boop ed un vestito a fiorellini troppo giocoso e poco adatto ad una morta. Il tuo corpo freddo sembrava aver trovato finalmente pace. Proprio quando il tuo cuore, ferito e ribelle, aveva cessato di battere. Abbiamo subito chiamato Amelia. Dal tuo vestito a fiorellini faceva capolino una lettera. Io ed Amelia l’abbiamo letta insieme.
“Sono Olga la pazza senza cervello, per me farvi paura non è stato bello… pensavate fossi soltanto una scema demente, ma mi avreste conosciuta se solo aveste aperto la mente. Adesso da morta voglio dirvi la verità forse per suscitare un po’ di pietà. Se volete scoprire il segreto nascosto prendete la forbice e tagliate a più non posso. Se sarete abili il segreto sarà svelato ma, vi prego, ditelo all’unica persona che io abbia mai amato (cioè Amelia)”.
Noi pochi presenti restammo basiti… se non fosse stato per la scrittura incerta e tremolante ed il lessico un po’ sgrammaticato avremmo pensato ad un autore sconosciuto nascosto nell’armadio, non di certo alla nostra Olga, muta, spenta, che urlava frasi sconclusionate durante il temporale. Nessuno pensava potesse articolare due parole connesse insieme, solo risposte si/no a domande semplici, così dicevano i medici.
E poi cosa significava quella specie di caccia al tesoro, cosa avremmo dovuto tagliare?? La stessa Amelia con lo sguardo attonito e la bocca aperta continuava a guardarsi intorno alla ricerca di una qualche spiegazione plausibile. In 50 anni di vita il discorso intellettualmente più profondo di zia Olga aveva riguardato la preferenza sulla pasta da cucinare per pranzo (fusilli o rigatoni); non era certo in grado di scrivere una rima baciata. Le uniche certezze rimaste invariate in quello scenario surreale erano l’amore strano ma indiscusso che sua zia aveva nutrito per lei e le pantofole di Betty Boop.
In attesa dell’impresa di pompe funebri, come intrattenimento dei pochi presenti, abbiamo pensato di seguire le istruzioni di Olga e abbiamo iniziato la nostra affannosa ricerca in ogni dove, senza risultati apprezzabili… tranne un lecca lecca rosso fragola, un ago, un panino smangiucchiato, una banana ammuffita ed i fazzoletti bianchi ricamati indebitamente sottratti alla povera signora Agnelli.
Dopo che hanno portato via Olga seguita dall’attonita Amelia, qualcosa mi spinse a rimanere in quella stanza. Pensavo ossessivamente alle parole della filastrocca assurda di Olga, cercando di capirne il senso. Nel tentativo di risolvere quell’insolito rebus mi sono seduta sul letto e… BAM… il mio leggiadro didietro è incappato in qualcosa di duro, inaspettato per chi si siede su un materasso. Così, in preda alla furiosa euforica soddisfazione di chi è vicino alla meta, iniziai a tagliare e tagliare, fare a pezzi quel povero vecchio giaciglio, incurante del caos che stavo creando nella camera e degli insulti che mi sarei beccata.
La mia ricerca non fu vana: perfettamente centrato come se un geometra avesse progettato il tutto con misure millimetriche, c’era un contenitore metallico, il cui coperchio di cartone era tutto scarabocchiato e colorato di rosa: a quanto pare il colore preferito della povera Olga. Un po’ disturbata dalla piega che stava prendendo quell’insolita giornata, col mio contenitore grottesco e fuori contesto, mi presentai nella camera mortuaria a cercare Amelia. Era giusto fosse lei a scoprire per prima il segreto di sua zia Olga.
La povera Amelia, ancora con la bocca aperta e lo sguardo allucinato di chi ha perso ogni certezza, tolse finalmente il coperchio rosa shocking (che sembrava scarabocchiato da un bambino disubbidiente incazzato col mondo) aprì la scatola. Tutti eravamo curiosi e tentavamo di sbirciare per indovinare quel segreto, per un attimo dimentichi della povera Olga che giaceva orizzontale, ormai quasi mummificata. Con nostra sorpresa il contenitore era semivuoto. Sul fondo però spiccavano una foto ingiallita di Amelia bambina, un biglietto di 50.000 lire su cui c’era scritta un’imprecazione, una chiave adornata da un bel fiocco, ovviamente rosa, ed un diario, sigillato da un lucchetto, sulla cui prima pagina c’era scritto a caratteri cubitali “IL SEGRETO DI AMELIA”.
Fu lì che la povera Amelia perse il controllo, il lume della ragione o come dir si voglia e, senza alcun ritegno, iniziò ad inveire contro la zia morta scuotendola vivacemente e apostrofandola con improperi irripetibili. Il succo della suo rabbioso discorso non era poi così illogico: la vita di Amelia si sarebbe potuta definire piatta, trasparente e priva di segreti, tant’è che come lei stessa affermò con una nota di rammarico, non sapeva neanche come era fatto un uomo!! Fortunatamente ad un certo punto, come se si fosse improvvisamente svegliata da un sogno, si guardò in giro… e osservando i visi attoniti dei pochi presenti intervenuti a quella per così dire… “originale” veglia funebre, si rese conto di aver dato vita ad uno spettacolo imbarazzante ed espletò il suo senso di colpa in un pianto dirotto, incontrollato, irrefrenabile. La situazione mi stava sfuggendo di mano così, per evitare un interminabile secondo atto di quell’assurdo dramma senza capo nè coda, afferrai Amelia per un braccio e la portai fuori dalla camera mortuaria. Cercai di farle capire che, per quanto assurda potesse essere quella situazione, al momento non era prioritaria. Sua zia Olga meritava perlomeno un decoroso funerale per cui stipulammo un patto: io avrei tenuto il diario e lei la chiave col fiocco rosa. Non appena fosse stata in grado di approfondire il discorso ci saremmo viste ed insieme avremmo letto il contenuto del diario. Le diedi il mio indirizzo e dentro di me sperai che quel momento arrivasse in fretta… anche se non mi riguardava direttamente, ero estremamente curiosa e non vedevo l’ora di andare a fondo sulla questione.
Passarono alcuni giorni. Era un pomeriggio di agosto durante il quale, nonostante la calura, avevo deciso di auto-flagellarmi e mi accingevo, da buona pugliese, a preparare una calorica parmigiana di melanzane. Avevo appena indossato la mia speciale tenuta anti-frittura con tanto di grembiulino e cuffia di plastica in testa, quando suonarono alla porta. Di punto in bianco mi ritrovai al cospetto di Amelia che, con il suo insolito cappello a falde larghe e le sue ballerine improponibili, sventolava coraggiosamente la sua chiave arrugginita, impavida e finalmente pronta a profanare il diario: ad entrare nel mondo oscuro di sua zia Olga. Ovviamente lasciai perdere la parmigiana e, continuando ad indossare la mia tenuta anti-frittura, feci accomodare Amelia e le preparai un caffè. Non riuscivo ad immaginare quale segreto potessero rivelare quelle sdrucite pagine ingiallite, ma avevo l’assurda sensazione che quel pomeriggio avrebbe cambiato le nostre vite, in particolare quella di Amelia.