Ottobre, stagione di funghi: cosa c’era di più bello che girare per i boschi ancora pieni di mille colori in cerca dei preziosi frutti della terra? Respirare aria pura, l’ultima prima dell’inverno, intravedere sui rami gli scoiattoli che hanno già vestito la livrea invernale?
I fungaioli sciamavano lungo i monti come tante formichine gioiose, chi da solo, i più esperti, chi in comitiva, intere famigliole, gruppi di amici.
Nonna Rachele usciva sempre da sola.
«Non devi andare da sola», le dicevano i conoscenti – parenti ormai non ne aveva più dopo che le esalazioni della raffineria le avevano portato via l’unico figlio – «se dovessi cadere nel bosco, chi potrebbe trovarti?»
“O se ti perdessi” sottintendevano senza dirglielo per timore di offenderla.
Ma nonna Rachele era lucida, lo era sempre stata, ed era agile come un capriolo, nonostante i suoi ottant’anni d’età.
«Io non mi perdo, conosco i miei monti», rispondeva sempre, « e se dovessi sentirmi male e morire, ebbene, non è che perderei molto, e meglio lì che in un cronicario da anziani».
A questo punto tutti tacevano, perché sapevano che la nonna era stata sfrattata dalla sua casa in paese dopo che era rimasta sola e non era più stata in grado di pagare le tasse: così l’abitazione era stata messa all’incanto. L’aveva comprata proprio il proprietario della raffineria, ma era chiaro che era stato tutto combinato con il sindaco e l’ufficiale giudiziario, che da sempre andavano a braccetto.
Quindi, consapevoli che quelle erano le ultime uscite, nessuno si azzardava ad impedire a nonna Rachele di andare, e seguirla era impossibile, perché si addentrava in stretti canaloni e forre che soltanto lei conosceva.
Però ritornava sempre con qualche fungo, più di tutti gli altri, ed era solita venderli ai turisti o ai ristoranti della zona, per fare qualche soldo e tirare avanti. Anche se ormai era quasi inutile, visto che ai suoi ultimi giorni ci avrebbe pensato lo Stato. Eppure anche quel sabato Rachele era tornata con il cestino pieno, e si era diretta subito verso il ristorante, dove aveva venduto tutto il suo carico.
L’oste le aveva pagato la solita miseria (tanto lei cosa ne sapeva dei prezzi del mercato, visto che non usciva mai dal paese?) e aveva subito nascosto i porcini per utilizzarli la sera dopo, quando avrebbe avuto una cena importante.
«Senti Rachele», aveva detto, « domani sera devo preparare una cena per tutti i maggiorenti della zona, il sindaco, il comandante della stazione dei carabinieri… ci sarà anche il signor Neri della raffineria. Non avresti qualche coniglio da vendermi?».
Rachele esitò.
«Adolfo, sai che ai miei conigli sono affezionata…»
«Sì, ma tanto tra poco…», e lasciò la frase a mezz’aria.
Gli occhi della vecchia sembrarono inumidirsi, ma fu l’impressione di un attimo.
«Hai ragione, te li porterò, ma ammazzali tu, io non me la sento».
«Certo, certo», convenne il ristoratore, «non c’è problema. Ma portameli prima di sera che devo metterli a marinare».
Nonna Rachele assentì.
«Vado a fare ancora un giro nel bosco e te li porto. Voglio raccogliere ancora qualcosa prima che sia tardi».
Adolfo la guardò andare via ed ebbe un moto di compassione: povera vecchia! Dopo tanti anni vissuti in paese la mandavano via in quella maniera! D’altra parte le tasse si dovevano pagare, lo sapeva bene lui che non l’aveva mai fatto in tutta la sua vita!
Rachele si svegliò di buona mattina, come sempre. Le piaceva sentire l’aria fredda e pulita dell’alba, specialmente ora che sapeva che erano le ultime volte. Non importava, la sua vita l’aveva fatta. Però adesso sentiva che le troppe emozioni di quei giorni le avevano portato via le forze e tagliate le gambe, e doveva come prima cosa mettere a posto.
Andò in cucina, tolse dal fornello la pentola in cui aveva cotto i funghi fino a ridurli in una poltiglia scura e poi in un liquido inodore, la lavò accuratamente con acqua e sapone e la mise ad asciugare. Lo stesso fece con gli utensili che aveva usato, che appese al loro posto, puliti come specchi. Si avvicinò infine al tavolo e raccolse i pezzi di funghi che erano avanzati e ne accarezzò la superficie liscia e perfetta: Amanita Phalloide, Verna, Virosa. Pulì anche gli ultimi scarti di Cortinarius Orellanus, mise tutto in un sacchetto che andò a svuotare in una buca preparata in giardino.
Rientrando a casa sentì le gambe cederle.
“Ecco, ci siamo”, pensò, “il mio cuore fa di nuovo le bizze”.
Ma non aveva finito, doveva fare un ultimo sforzo.
Andò al lavandino, prese la siringa di plastica con cui aveva iniettato il veleno nei conigli e dopo averla lavata andò a gettarla nella buca.
“Le tossine non faranno effetto prima di ventiquattro ore”, si disse, ” i miei poveri conigli non hanno dovuto soffrire”.
Quell’ultimo sforzo la lasciò senza fiato. Si appoggiò al tavolo che aveva sotto il pergolato e si lasciò cadere sulla vecchia sedia di paglia. Era esausta, consumata dall’ansia di quei giorni.
“E’ ora di andare” sospirò, quasi con sollievo, lasciando che le forze l’abbandonassero, “ma non me andrò da sola!”
E a questo pensiero un sorriso si dipinse sulle sue labbra esangui, mentre gli occhi si chiudevano in un sonno senza ritorno.