Sottili volute di nebbia scendevano tra i filari, come una coltre bianca che saliva a coprire le colline brulicanti di uomini soltanto pochi mesi addietro.
Adesso, in pieno autunno, quando il silenzio calava sulla terra esausta dall’estate, quando i vignaioli erano occupati a lavorare il m osto e si apprestavano al riposo invernale, adesso e soltanto adesso esili ombre facevano capolino, timidamente, quasi spuntassero dalla terra come fuochi fatui che illuminavano la notte.
In alto, nel cielo terso e freddo, splendeva una luna glaciale a proiettare scarne ombre sul terreno, ma nessuna luce perforava la nebbia, nessun suono echeggiava in essa, ogni vita sembrava sospesa.
Lentamente, grigio su grigio, vaghi fantasmi sembravano sorgere dal nulla, e come attirati da un misterioso richiamo si dirigevano verso la cima di un colle spoglio da ogni vegetazione, con soltanto un grande albero a segnarne il culmine.
Lì spirava un lieve alito di vento, e la nebbia sembrava oscillare intorno a delle presenze sull’erba avizzita, quasi ad accarezzarle o a proteggerle, ad isolarle dal mondo circostante.
Erano dieci, cento figure minute, accovacciate in cerchio intorno ad un’altra più grande, che contrastava con la loro inconsistenza per la sua relativa cocretezza. E parlava, sussurrava parole nel vento.
Lo confesso, quella sera avevo alzato un po’ troppo il gomito e camminavo lungo la strada di campagna per schiarirmi un poco le idee. Di ritornare in macchina neanche a parlarne, sapevo che la pattuglia di carabinieri dietro la curva mi aspettava al varco, e poi mi faceva piacere sentire sul viso l’aria umida della notte autunnale. Ai miei sensi un poco ottenebrati il vento sembrava sussurrare parole lontane, quasi che le colline buie, avvolte nella nebbia fossero popolate da… Da cosa? Gli animali notturni potevano produrre dei fruscii nel loro sgusciare furtivo, ma ero consapevole che l’avrebbero fatto ancora prima che potessi sentirli. E perché i cani abbiavano, lontano? Non era il normale richiamo da una fattoria all’altra, sembrava quasi un coro lamentoso alla luna, o forse un saluto.
Risi tra me: un saluto canino!
Eppure sembravano davvero parole quei suoni portati dal vento. Da dove venivano? Strappai un ciuffo d’erba e lo lanciai in aria per vedere la provenienza del vento. Mi misi a camminare verso la direzione in cui erano volati, poi mi diedi dello stupido: dovevo cercare nel luogo da cui proveniva il vento, non in quello in cui era diretto! Girai su me stesso, ma ero sul bordo della stradina e finii nel fosso. Le piogge dei giorni precedenti l’avevano riempito per metà, e l’acqua gelida ebbe l’effetto di svegliarmi. Ero bagnato fradicio, non potevo restare così. Dovevo rientrare alla macchina, accendere il motore e cercare di scaldarmi ma… dove era?
Dall’altra parte della collina, certo, potevo tagliare per il monte e risparmiare un sacco di strada. Guardai il sentiero, poi guardai la collina. Il pendio era erboso e saliva dolcemente. Sì, era vero, dalla metà in su era avvolta nella nebbia, o nelle nuvole basse, ma in fondo si trattava solo di arrivare in cima e ridiscendere dall’altra parte, non c’era da sbagliarsi. Ma ero sicuro che fosse proprio quella la collina?… Nella nebbia sembravano tutte uguali. Risi, nella mia ebbrezza alcolica: se erano tutte uguali era lo stesso salirne una o l’altra, no?
Già non sentivo più il freddo. Cominciai a camminare, e presto venne a mancarmi il fiato. Lo stomaco non mi aiutava, mi saliva alla gola un bruciore acido. Mi fermai. Avevo percorso solo poche centinaia di metri, ma già ero nella nebbia. Non era fittissima, ci si vedeva a qualche decina di metri, ma i banchi si addensavano e diradavano rapidamente. Tutto era ovattato, si sentiva solo quel vago sussurrare che mi aveva attirato sin lì.
La mente mi si stava pian piano schiarendo, ma di pari passo con la lucidità sentivo una strana inquietudine entrarmi dentro. Ora non ero più baldanzoso, camminavo con cautela, quasi temessi di farmi sentire, ma da chi?
Improvvisamente mi resi conto che non si sentivano movimenti di animali né versi di uccelli notturni, solo quel lamentoso abbaiare di cani che adesso mi metteva i brividi. Dovevo essere quasi arrivato in cima quando notai un bagliore provenire da una zona dove c’era un grande albero solitario. MI misi carponi e strisciai fino a raggiungere una posizione da cui potessi vedere cosa stava succedendo. L’erba bagnata si confondeva con i miei vestiti inzuppati e mi consentiva di scivolare senza fare alcun rumore. Procedetti così per alcuni lunghi minuti, finché non superai un piccola cresta e li vidi.
Uno spettacolo irreale, assurdo: decine di piccole figure assiepate intorno ad una più grande, ed ognuna di loro teneva in mano una sorta di fiammella, come una luce fredda che sgorgava direttamente dai palmi, senza che bruciassero né provocasse dolore. Distavo da loro solo pochi metri, quasi potevo vedere i lineamenti pallidi e gli occhi intenti, fissi sulla figura che parlava.
«Questa è una notte magica, la notte dell’Ouroboros, il Re Serpente, l’inizio e la fine, l’eternità, l’immortalità e le perfezione. La notte della luna di ghiaccio, quando tutto ritorna e chi vuole ascoltare può farlo… è giusto?»
Capii in quel momento che le figure erano bambini, tutti bambini. Ma cosa ci facevano su quella collina, al buio? Chi erano veramente?
Un coro si levò sibilando dagli ascoltatori.
«Sisisisisi….»
Il narratore sembrò riprendere fiato.
«Allora è venuto il momento delle testimonianze».
Nel silenzio generale vidi un bambino alzarsi, superare il tratto di prato che lo divideva dall’uomo e restare fermo davanti a lui. La fiammella che sembrava scaturire dalla sua mano gli illuminava il volto di una luce pallida, spettrale.
«Io sono Roberto» disse, «Mi uccise un uomo vicino a casa mia, nei giardini. Mi attirò nel buio e non feci mai ritorno.»
Aveva parlato con voce atona, profonda. Si chinò e depose ai piedi dell’uomo il fuoco che teneva sul palmo. La fiamma però non si spense, continuò ad ardere anche sulla mano mentre tornava silenziosamente al suo posto e un altro ragazzo si faceva avanti.
«Il mio nome è N’komo. Avevo nove anni quando mi hanno messo un fucile in mano e mi hanno mandato a combattere, ma non ho sparato neanche un colpo. Mi ha ucciso la mannaia di un uomo grande il doppio di me».
Anche lui ripeté lo strano rituale, e altri si fecero avanti.
«Noi siamo Luigi, e Gunther, e Maria, e Edwine e… Non sappiamo chi ci abbia uccisi, siamo morti quando uomini sconosciuti hanno sganciato dai loro uccelli d’acciaio semi di morte…»
«Noi siamo Yoko, Miko, Misaki, Ami, Takumi… ci ha ucciso un fungo maligno che è scaturito dalla terra e ha bruciato ogni cosa, a Hiroshima e Nagasaki…»
I bambini continuavano a farsi avanti e a raccontare le loro storie a quell’uomo, mentre io sentivo l’angoscia lacerarmi dentro, come se fossi stato io a commettere quei delitti spaventosi.
Sembrava che la processione non dovesse interrompersi mai, così come il racconto degli orrori commessi dagli uomini, orrori che tutti noi fingiamo di ignorare ma che il nostro cuore non può dimenticare mai.
Ma infine, proprio prima che ad oriente cominciasse ad apparire tenue la luce dell’alba, l’ultimo bambino depose la sua testimonianza e sulla radura calò il silenzio. La nebbia si fece più fitta, caliginosa, nascondendomi alla vista i protagonisti della scena notturna, e quando nuovamente si sollevò vidi che sul prato era rimasto solamente l’uomo. Con sgomento mi resi conto che mi guardava, ed io non riuscivo a distogliere il mio sguardo. Quando mi fece cenno di avvicinarmi, meccanicamente lascia la mia posizione e andai verso di lui. Entrando nel cerchio occupato dai bambini notai che non c’era sull’erba il minimo segno della loro presenza, come se avessi sognato tutto.
Ma davanti ai piedi dell’uomo ardeva un grande fuoco freddo che rischiarava la notte e mi diceva che non era stata un’illusione, che quello che avevo visto era successo veramente.
Quando fui a pochi passi dall’uomo mi fermai, non sapendo cosa fare né dire.
«Hai assistito alla cerimonia dell’Uriboro», mi disse lui.
Non era una domanda, era una constatazione. Aveva parlato con voce tranquilla, profonda, ma il suono delle sue parole non sembrava provenire dalla sua bocca quanto piuttosto permeare l’aria, diffondersi nella notte che volgeva al termine.
Non ressi alla tensione un istante di più.
«Sono colpevole, lo so», gemetti, le lacrime ancora agli occhi, «sono colpevole come essere umano e nessuno potrà cancellare le colpe che portiamo nel nostro cuore. Ora so che questo è il vero peccato originale che macchia ogni uomo e donna che calpesti la terra!»
Forse non dissi queste esatte parole, certamente no, ma il senso era questo.
L’uomo assentì pensoso, ma non pronunciò parole di condanna o di assoluzione. Si limitò a raccogliere dal fuoco una fiammella e a porgermela sul palmo della mano. Il gesto era chiaro, e forse lo era anche il suo significato. Esitante, gli porsi il mio palmo aperto, e quando lui ci posò la fiamma mi irrigidii istintivamente, attendendo che il bruciore arrivasse ai miei nervi, ma non successe nulla di tutto questo.
La fiamma ardeva senza bruciare, fredda, emanando una luce che non andava oltre lo spazio compreso tra i miei occhi e la mia mano. Sollevai lo sguardo verso il mio interlocutore, per avere una risposta, una spiegazione.
«Ti ho passato il testimone», mi disse semplicemente, «ora sta a te raccogliere e sopportare il peso dei dolori dell’umanità. La fiamma ti darà la forza per farlo».
Ansimai.
«No!» avrei voluto urlargli, «non puoi farmi questo, nessuno può sopportare il peso di tutto il male dell’umanità! Uccidimi, se vuoi, ma questo no!».
Ma dalla mia gola non riusciva ad uscire la voce, e capii che quello che era stato deciso non avrei potuto cambiarlo. Un raggio di luce trafisse l’oscurità e illuminò la sommità del grande noce sotto le cui fronde si era svolta tutta la scena. Come la notte, l’uomo era scomparso, lasciandomi solo.
In qualche modo riuscii a ridiscendere la collina, raggiungere la strada, ritrovare la mia macchina.
La fiamma ardeva ancora nella mia mano, ma quando la strinsi sul volante sembrò sparire, per riapparire sul palmo quando era libero. Con il tempo scoprii che soltanto io potevo vederla, e poco alla volta ci feci l’abitudine.
No, non credete che niente sia cambiato nella mia vita dopo quella notte. Molte volte ormai ho recitato la parte del narratore nella mistica cerimonia dell’Ouroboros, infinite volte ho ascoltato con il ghiaccio nel cuore le strazianti testimonianze di cosa è capace di fare l’uomo. MI è capitato anche di incontrare altre persone che, come me, portavano le stimmate del fuoco sulla mano destra: ci sfioravamo con gli sguardi ma non ci fermavamo mai a parlare, perché sapevamo che non avremmo fatto altro che raccontarci la stessa storia.
Da allora il mio tempo si è fermato, la vita ha smesso di trascorrere e vago sperando soltanto, un giorno, di trasmettere a qualcuno il mio testimone e la mia pena, e trovare alfine la pace.
Ma voi uomini, che ignorate tutto questo, o piuttosto continuate a fingere di ignorarlo, voi, per un istante, un momento solo, fermatevi! Lasciate da parte le mille false preoccupazioni, i desideri senza senso, le futili speranze, fermatevi e pensate a quante cose orrende permettete che si perpetrino con la vostra disattenzione e la vostra abulia. Fermatevi e sappiate che anche voi, come me, siete complici, che i fantasmi esistono e verranno un giorno a chiedere conto dei vostri delitti, che lo specchio in cui vi guardate presto rifletterà l’immagine della morte!