I gerani erano ridotti a poche foglie su rami bitorzoluti, foglie rattrappite verdi e marroni. Tra loro alcuni fiori rossi, che sopravvivevano a fatica nella poca terra invasa dal trifoglio venuto da chissà dove.
Adriano li osservava con disapprovazione mentre li bagnava: avrebbe dovuto sostituirli, ma sapeva che in fondo era colpa sua, delle sue dimenticanze e della scarsa attenzione che aveva per tutte le cose. I fiori non sono molto diversi dalle cose della vita, vogliono cure e lavoro tenace prima di sbocciare nel loro splendore.
I primi ricordi erano di quasi mezzo secolo prima, quando era un bambino nervoso che viveva in una vecchia casa popolare con nonni e cugini… di quei tempi ricordava soprattutto il terrore degli scarafaggi e il vaso da notte, che ancora usava. Ricordava anche un trenino montato su una tavola di compensato, ricoverato in piedi accanto al suo letto, e di come sua madre fosse riuscito a convincerlo che quelle grosse bestie nere non potevano raggiungerlo lì, nel suo lettino, nel suo rifugio.
Dalla nebbia del tempo, da cui affioravano ricordi come isole solitarie, emergeva il suo primo successo: quando alle elementari, in terza, aveva vinto un concorso, il primo di una lunga serie, facendo un tema di carattere religioso di cui non ricordava nemmeno più il titolo. Ricordava però la premiazione, il diploma dato dal Cardinale, l’esitazione con cui aveva baciato l’anello.
L’esaltazione, il ritorno alla normalità, la soddisfazione dei genitori e del maestro (lui non lo sapeva ma il concorso era a livello regionale).
Forse era stato allora che aveva deciso che avrebbe scritto solo per avere qualcosa in cambio, solo per soldi. Non era andata così, non ne aveva mai fatto una professione, ma era stato comunque fedele alla sua promessa: aveva smesso di scrivere.
Non era stata una decisione immediata, naturalmente, non si prendono queste decisioni a otto anni, ma erano state poste le premesse per quella che sarebbe diventata, dopo diversi anni e diversi concorsi vinti, una autentica svolta della sua vita.
Tante cose si governano giorno dopo giorno, non è vero che non si cambia. Come una pianta la vita si plasma, ed è possibile smettere di sorridere, di parlare, anche di sognare, per certi periodi.
Però ogni nodo viene al pettine, e come quei poveri gerani la sua vita era avvizzita giorno dopo giorno, avvizzita con pacatezza, senza tempeste, senza le cure di un attento giardiniere.
Stupidaggini. Adriano posò l’innaffiatoio e sparse un paio di manciate di fertilizzante in granuli, chiedendosi come facessero le piante ad assorbirlo (e in effetti non sembrava che facesse granché).
Enzo aveva avuto una storia. Una storia a cui si era affezionato, forse perché non era avvezzo ad averne, o forse perché si appassionava ad ogni cosa che gli desse un soffio di aria fresca.
Una storia nata chissà come e finita non molto tempo dopo, che era vissuta più nei suoi pensieri che nella realtà.
Una storia nata attraverso delle finestre, lo spiarsi reciproco, il pensare. Poi lei aveva fatto un passo.
Lei, che era stata una donna bellissima, e anche ora che gli anni erano passati conservava quel fascino che derivava dall’antica bellezza e dalla consapevolezza di essere ricercata. Come ogni donna troppo bella che non sapeva gestirsi aveva finito per rimanere sola, in balia di storie improbabili che non portavano da nessuna parte, storie come la loro.
Forse si era abituata alla sua indipendenza, al fatto di non dover mediare con nessuno le sue decisioni, di non dover mai chiedere scusa per recuperare qualcosa che andava perdendosi.
Però ad Enzo mancava, mancava tanto. Probabilmente più che i suoi capelli neri, i suoi occhi scuri, gli mancava il soffio d’aria fresca che lei aveva rappresentato, l’ansia di sentire dal suo tono di voce di che umore era, l’emozione di aspettare un incontro.
Ricordava di lei le labbra piene e perfette, il seno abbondante ma sostenuto, il portamento elegante e deciso. Ricordava anche, per la verità, le rughe sul collo, il trucco a volte pesante, i bruschi sbalzi di umore e quella inaffidabilità che era a tratti divertente ma a lungo andare stancava.
Il primo incontro era stato in un parco cittadino, le macchine parcheggiate poco lontano, una quantità di parole inutili perché tutti e due aspettavano solo il primo bacio, goffo, attraverso il tavolo di pietra. Poi camminare mano nella mano, sentendosi un po’ ridicoli.
Enzo pensava che negli amori della maturità la fantasia e l’esperienza della vita giocassero ruoli diversi, spingendo ognuno ad immaginare percorsi completi, e non un futuro in divenire.
Forse per questo si rimaneva subito delusi e restava da scegliere se accontentarsi di quello che si riusciva ad avere e portare avanti rapporti che col tempo diventavano abitudine e legami e inseguire il sogno della gioventù, l’amore.
Alla fine ogni discorso si perdeva nel ricordo di quando le mani di lei lo stringevano forte, delle sue labbra morbide e calde, del suo corpo sodo. Quella sensazione di materialità era rimasta, intensa, ed era quello che non riusciva a lasciare completamente dietro di sé: ogni tanto la metteva in un angolo, la teneva a bada, ma più ci rifletteva e più ne sentiva la mancanza, la necessità fisica.
La consapevolezza di averla perduta e forse di non averla mai avuta veramente lo faceva stare male.
Guardava lontano, guardava il mare d’acciaio e oltre il mare, dove il cielo scende grigio fino a formare la linea scura dell’orizzonte. Altre donne camminavano sulla passeggiata, ma lui pensava soltanto a lei.