Quando André Derain vede rientrare Augustin ha quasi un colpo al cuore, ma riesce a dissimularlo.
«Ciao. Allora com’è andata con Maurice?»
Augustin mostra la tela su cui sono abbozzato alcune linee. Derain l’esamina.
«Direi che lo stile è simile al suo, i tratti essenziali, gli accostamenti cromatici… tutto molto fauve… Tuttavia non cercare d’imitarlo, vedi di trovare un tuo stile e…»
«Non l’ho dipinta io, è di de Vlaminck» lo interrompe Augustin, con una punta di ironia.
«Ah!»
«Me l’ha prestato perché potessi ragionarci sopra».
«Allora si vede che avete proprio fatta amicizia, bene! Quand’è che vi vedrete di nuovo?»
L’ha detto con studiata noncuranza: Augustin se ne sarà accorto?
«Non lo so» risponde questi, «de Vlaminck ha da svolgere delle commissioni, e comunque aspetta il tempo bello per andare in esterni.»
De Vlaminck. Non lo chiama mai per nome, forse il pittore ha fatto meno breccia nel suo cuore di quanto sembrasse a prima vista.
«Be’» dice Derain, guardando un angolo della stanza, «potresti mettere un cavalletto in quel punto, mi sembra una buona esposizione.»
Augustin segue la direzione dello sguardo.
«Eccellente, grazie, ma devo uscire anch’io. E poi Jeanne mi ha trovato una stanza libera.»
«Davvero?»
«Sì, mi ha detto che quel ragazzo ebreo, come si chiama… Mosè…»
«Moïse Kisling, deve essere lui.»
«Sì, è partito per arruolarsi come volontario nell’esercito.»
«Sei sicuro? A me risulta che sia stato ferito in battaglia e sia ritornato. Può darsi che adesso sia ancora in cura, ma…»
«Comunque la stanza è libera: Jeanne me l’ha fatta vedere.»
André alza le spalle: «Be’, in questo caso fai pure.»
«Comunque se dovesse tornare gliela restituirò, naturalmente.»
Un lampo passa nello sguardo di Derain, una espressione che probabilmente significa “Dio non voglia!”, ma è solo un attimo: in fondo cosa gliene frega? Basta che stia fuori dai piedi, almeno per ora!

L’uomo seduto al tavolo d’angolo porta un monocolo cerchiato d’oro sull’occhio sinistro, collegato con una catenina dello stesso metallo all’occhiello della giacca. Indossa un completo anonimo, ma di buon taglio, una cravatta grigio scuro sulla camicia bianca. In testa portava una bombetta, che ora è appoggiata sulla sedia tra loro. Quello seduto di fronte a lui è vestito in maniera più comune, come un qualsiasi modesto impiegato dell’Amministrazione. Il tavolino è discreto, come è molto discreto il bistrot nel XVIII arrondissement in cui si trovano, ma il primo uomo è nervoso, lo si capisce dal modo in cui sembra friggere sulla sedia, cambiando di frequente posizione.
«Non capisco perché ha voluto che ci incontrassimo qui!» esclama, stizzito.
«Lei non si deve preoccupare» risponde l’altro, calmo, «sono io a decidere tempi e modi degli incontri.»
«Ha almeno dei risultati?» chiede quello con il monocolo.
Il suo interlocutore gli passa attraverso il tavolo un giornale ripiegato in quattro. Quello lo apre cautamente e sbircia un foglio che è nascosto all’interno.
«Tutto qui?»
«Non abbia fretta: quando non si sa cosa cercare ci vuole pazienza.»
«Lo riferirò a chi di dovere!»
L’altro ignora quella che vorrebbe essere una minaccia.
«Deve sempre vestirsi come un burocrate tedesco in trasferta?» chiede invece.
Il primo fa uno scatto e quasi gli cade il monocolo. Si porta le mani alla cravatta.
«No, non è la cravatta: è tutto il resto.»
«Quando ha finito di divertirsi le vorrei ricordare che…»
Questa volta l’altro uomo si sporge in avanti sul tavolo, fino a sfiorare con il volto quello del suo interlocutore: «Ognuno è responsabile del proprio lavoro» dice, e la sua voce è tagliente come una lama, «ma si ricordi di non mettersi mai sulla mia strada.»
L’altro fa istintivamente per allontanarsi, ma tenuto saldamente per il bavero. Dopo un attimo la mano molla la presa e lascia che l’uomo si ricomponga, poi, dopo un ultimo freddo sguardo si alza.
«Guten Abend» sussurra, tanto piano che nessuno lo sente.
L’uomo con il monocolo lo guarda allontanarsi e uscire dal locale. Il cuore gli sta battendo all’impazzata. Respira forte più volte, sino a calmarsi. Ma perché non ha continuato a fare il suo tranquillo lavoro? Necessità di guerra, gli hanno detto, nessuno può tirarsi indietro, ma per quelle cose bisogna esserci portati, e io non lo sono!
Prima che il cameriere ritorni, si alza e va alla cassa a pagare le consumazioni. Ascolta con sollievo il padrone dirgli l’importo in un francese del sud, quindi raccoglie la bombetta che aveva dimenticato sulla sedia, si dirige anche lui all’uscita e si sofferma sulla porta. Piove. Lontano, confusa nella foschia, si erge la bianca mole della basilica del Sacro Cuore. Dell’uomo che si fa chiamare – come si fa chiamare? Augustin, che strano nome! – più nessuna traccia, sembra essere stato inghiottito dal nulla.