Ho deciso di prendere il treno… non ce la posso fare ad affrontare il traffico, i camion, gli autisti indisciplinati, incazzati col mondo.
Mi sento troppo piccola nella mia utilitaria anonima dal colore smorto: sembra che tutti vogliano prevaricarmi, superarmi, sovrastarmi ed io non sopporto l’arroganza delle vessazioni, soprattutto prima di un colloquio di lavoro così importante. Preferisco la passività del treno, il farmi trasportare dall’assenza voluttuosa di pensieri leggeri mentre guardo fuori dal finestrino ed osservo la gente che aspetta sui binari, immaginando le loro vite.

Ho sempre pensato che il sole illumini le debolezze della gente, mentre la pioggia le nasconda, ed oggi piove. Tra i mille volti che vedo passarmi davanti, alcuni sono così particolari che quasi mi chiamano per farsi scrutare dentro. Alcuni sono trasparenti, altri sono più enigmatici e stuzzicano la mia fantasia. Cerco di immaginare come sono, cosa fanno quando non sono sul binario ad aspettare quel treno… vedo una coppia che si bacia… forse si amano davvero o magari cercano di tenere in piedi una relazione che in realtà sta andando in frantumi. Comunque il treno mi rilassa.

Sono in ritardo. Cerco sotto il letto le scarpe col tacco che odio, ma ho promesso al nonno che non avrei indossato i miei anfibi informi. Ho deciso di seguire i suoi consigli: vestirmi un po’ più professionale, senza i pantaloni con i tasconi enormi ed i maglioni taglia XXL. Si, normalmente è così che mi vesto. Più che uno stile, è che proprio mi piace affogare e perdermi in vestiti troppo grandi… solo per nascondermi; non voglio fare come mia madre, strizzata in abiti mignon per attirare avidi sguardi maschili. Da bambina odiavo quegli sguardi. Li ho visti troppe volte. Normalmente, nonostante abbia ampiamente superato l’età dell’adolescenza, indosso un buffo cappellino con la visiera a becco per nascondere gli occhi. Non voglio che mi guardino dentro. Preferisco essere selettiva e rivelarmi solo a pochi. Toh… nel frattempo ho trovato l’altra scarpa, cioè più che trovarla ci ho inciampato sopra mentre al buio andavo in bagno per l’ultima ritoccatina. Mi guardo allo specchio insoddisfatta per questo look che non mi appartiene: un abito triste, capelli raccolti in uno chignon dall’aria retrò, una parvenza di frangia disordinata sulla fronte, il trucco appena accennato, ed i soliti occhi troppo trasparenti, persi nell’incertezza di ciò che mi aspetta. Esco cercando di non far rumore per non svegliare il nonno che era fermamente deciso ad accompagnarmi (ci mancava solo quella) e sfreccio con decisione sulla mia biciclettina sgangherata pensando che tra qualche ora sarà tutto finito. Forse sarò felice… o forse no.
Se andrà bene, mia madre mi ha fatto una promessa che dovrà mantenere a tutti i costi. Me lo deve: dopo tanti anni finalmente dovrà dirmi la verità.

Mentre sono sul binario immagino cosa mi chiederanno; alcune cose le so già… domande tecniche a parte, io non sono una candidata come gli altri: già solo il nome scatena nei miei esaminatori ilarità e la curiosità del caso.  Generalmente strabuzzano gli occhi e fanno una smorfia strana con la bocca, per i più gentili sono “la ragazza dal nome insolito”, mentre i più insolenti si sbellicano dalle risate. In genere la curiosità è troppo forte ed è quasi inevitabile che mi chiedano spiegazioni, per cui ho già preparato la solita tiritera.

Il mio nome di battesimo è Daria, come il padre che non ho mai conosciuto, di cui non so nulla e che probabilmente non ha la più pallida idea della mia esistenza. Il padre che ho visto di sfuggita sull’unica foto ingiallita che mia madre sbirciava di nascosto, convinta di non essere vista da me bambina.

Quel padre dall’aria festosa che indossava un buffo cappellino con le lucine colorate e abbracciava teneramente mia madre mezza nuda, seduta sulle sue ginocchia. Beh ma cosa c’è di strano a chiamarsi Daria??… In realtà nulla. Ma se come secondo nome ti chiami “Nuvola”, la situazione si complica. Per fortuna quando mia madre ha scelto questo nome scellerato ha avuto il buon gusto di non metterci l’apostrofo. Ma di fatto mi chiamo Nuvola Daria e, con o senza apostrofo, il significato non cambia. Quando da adolescente le chiedevo per quale misconosciuta, nonché fantomatica, ragione mi avesse chiamato Nuvola, lei tirava fuori la patetica storia che sono nata prematura, che stavo per morire, che ero un fragile scricciolo sottopeso, tanto leggera da sembrare aerea, voluttuosa. Una bimba fatta di aria e non di carne ed ossa, una bimba che da lì a poco sarebbe morta e sarebbe tornata in cielo, improvvisamente scomparsa così come, inaspettatamente, era apparsa. Già… e anche per il concepimento mia madre aveva in serbo una patetica storia: da bambina mi raccontava che ero figlia di un principe indiano venuto dal mare col suo lussuoso panfilo, il quale principe, ammaliato dalla bellezza di mia madre, aveva trascorso con lei una folle storia d’amore dalla durata imprecisata. I due non si erano potuti sposare in quanto lui, in qualità di regnante, aveva dei precisi doveri legati al protocollo e alla conservazione della sua specie e del suo regno, popolato di principesse fatate e maestosi principi dal sangue blu. E così era fuggito per tornare nella sua terra lontana e sposare la principessa alla quale era stato, inevitabilmente, predestinato già da quando era in fasce. Da bambina ci avevo creduto a questa bufala gigantesca ma a quanto pare ero stata l’unica. Nessuno dei miei amichetti si era bevuto la storia del principe indiano, anche perché i miei tratti somatici hanno ben poco di orientale (sono bionda con gli occhi verde mare). Mia madre non mi ha mai svelato l’identità di mio padre, ma io credo sia l’uomo della foto. Dopo tante insistenze mi ha promesso che mi dirà la verità solo quando avrò un lavoro stabile, così potrò cercarlo e ricomporre il puzzle della mia vita.

Ma c’è una cosa che ancora non ho detto e che rende ancora più complicata la mia situazione: il mio cognome. Ovviamente porto il cognome dell’unico genitore che conosco, cioè mia madre, Elisa Camera. Per cui ricapitolando il tutto e facendo due conti il mio nome completo è Nuvola Daria Camera oppure Camera Daria Nuvola oppure Nuvola Camera Daria. Insomma da qualsiasi parte lo si legga più che un nome è un agglomerato dissonante di vocaboli che non stanno bene insieme e nei 25 anni della mia vita hanno dato luogo a risate, battute, smorfie, domande e quant’altro. C’era chi voleva gonfiarmi, soffiarmi, pomparmi, controllare la pressione delle gomme, sapere le previsioni meteo e sciocchezze simili. Ho dovuto sopportare tante battute e raccontare tante volte la stessa storia da avere la nausea. Tante volte ho sgridato mia madre per questo nome, anche se di fatto nel mio cuore l’ho sempre giustificata perché mi sembra evidente si sia trattato del prodotto dell’egoistico pensiero di una mamma poco più che adolescente, incurante delle conseguenze. Comunque oggi sono pronta, per l’ennesima volta, ad affrontare le solite domande di rito e le solite risatine, conscia che anche questa volta, probabilmente, non sarà l’ultima.

Mi accomodo sul treno o meglio praticamente mi infilo tra un tizio che tira su col naso ad intervalli regolari di circa tre secondi (e poi fa pure la rana con la saliva) ed una signora che chiacchiera al cellulare con una certa Roberta, o meglio “Robbberta”, con tre b come la chiama lei, ripetendo il nome infinite volte. Cerco di individuare chi dei due mi procuri il fastidio fonetico più corposo ma, come diceva la nonna,”non lasciare che il nervosismo risucchi come un magnete la tua energia positiva”, soprattutto prima di un colloquio di lavoro così importante, soprattutto perché mia madre potrebbe finalmente dirmi la verità.

(segue)