Io implodo, crollo dentro l’abisso di me stesso, verso il mio centro sepolto, infinitamente.
(da Cosmicomiche: L’implosione – Italo Calvino)
LA STORIA DI SILVIA
ALI
Le ali, quando spuntano, fanno davvero male.
Due piccole ferite nette dietro le spalle, i solchi in cui s’inseriranno, fra le scapole, i ventagli alari.
All’inizio ti sembrerà di portare un peso enorme sulle spalle.
Un fardello che ti piega la schiena.
La leggerezza non sempre è come te la immagini.
Ti daranno perfino impaccio muovendosi, talvolta, al ritmo delle tue braccia.
Non sono ali per il volo, ma per l’equilibrio.
E’ questa la cosa fondamentale.
Sono ali per aiutarti a non cadere.
A rimanere stabile sulla superficie.
Sentivo sotto i vestiti il solletico delle piume sulla mia pelle.
Una sensazione che mi faceva star bene.
Sorridevo.
E la gente mi guardava con simpatia.
Sorridevo.
E mi trovavano carina.
Accettavo la luce e il buio con naturalezza, senza pormi problemi, perché le mie ali mi davano il giusto equilibrio.
Fino a quando…
Non mostrare mai le tue ali a nessuno, per gli altri sono solo estensioni, immaginarie ed irrazionali, sintomo evidente della tua conclamata farneticazione.
Allora sbarreranno tutte le finestre per paura che tu possa spiccare quel tuo volo, illusorio e mortale.
Così, per preservarti, ti toglieranno il cielo.
E tornerai di nuovo a fissare un muro.
LA STORIA DI AMY
LA SINDROME DI MUNCHAUSEN
Continuava a nutrirlo col suo latte avvelenato, cantandogli dolcissime filastrocche, carezzandogli con dita leggere i capelli.
Gli raccontava del suo amore infinito e, appena la piccola bocca s’adombrava di viola, correva a prodigarsi in attentissime cure a salvargli la vita.
Per poi riattaccarselo al seno e somministrargli, ancora e ancora, quello che pur sapeva essere veleno.
E’ la storia di un amore delirante.
Sapevo che lui mi stava avvelenando ma, nonostante tutto, mi ostinavo a credere che il suo fosse amore.
La paura dell’abbandono mi ha reso colpevole di collusione.
Così ho continuato a bere quel veleno per timore di essere rifiutata, perchè la mia presa di coscienza dichiarata mi avrebbe resa non più idonea a quella forzatura patologica.
Stavo male, certo, ma sempre c’era la sua parola buona e la sua carezza sui capelli.
Amorevoli cure che ci sarebbero state sempre, a patto che io non guarissi.
Ho accettato le carezze ed il veleno.
Ho creduto veramente di essere malata.
Alla fine non sapevo più distinguere.
LA STORIA DI NADIA
PULSIONI SUICIDE
Mia madre parlava spesso di morte e, a modo suo, l’interpretava pure.
Io ne ero al contempo impaurita ed affascinata, fino a svilupparne una vera ossessione.
Ho vissuto, da piccolina, nel terrore che lei potesse d’improvviso morire (in realtà era sanissima, ma depressa) giurando a me stessa che se ciò fosse accaduto sarei morta con lei.
Così, da sempre, il suicidio è stato il feto che mi sono portata in grembo in una lunghissima gestazione.
Percepivo i battiti del suo piccolo cuore duro.
Il loro propagarsi, dal grembo al cervello.
Avrei dovuto trovare, prima o poi, il coraggio di partorirlo o si sarebbe incancrenito nel mio utero, tramutandosi in un devastante tumore maligno.
Dovevo estirpare, con le mie stesse mani, l’alieno tenacemente attaccato alla mia placenta.
Era parte di me e non corpo estraneo e, sicuramente, nell’abortirlo sarei morta io stessa.
Una prova tardiva di coraggio, un atto reale dal quale sarebbe sgorgato sangue.
Il sangue fa parte del ciclo vitale delle donne: quello del mestruo, quello del parto.
Forse per questo che ne ho orrore solo se fuoriesce da una ferita o se è sintomo di una malattia, ma non se scaturisce da un fattore naturale. O da una determinazione meditata.
E il suicidio è un atto meditato.
Il mio urlo silenzioso e la mia mano che trova sicurezza nella decisione del taglio (rasoiarsi non fa poi così male se lo fai con fermezza e se ti affidi al tepore dell’acqua).
Quattro segni netti (io che non riesco a tracciare una riga diritta neanche con un righello) e la mia mano era ben ferma, solo il cuore batteva accelerato, ma forse non era il mio, era quello del mio oscuro figlio che, dalla profondità buia del mio utero, presagiva l’imminenza di quel parto troppo a lungo posticipato, e che ora lo avrebbe violentemente scaraventato nella luce, decretando così, nell’evento della sua nascita, la mia morte.
Il suicidio non è un atto estremo di vigliaccheria.
Richiede un coraggio immenso ed una determinazione altrettanto netta.
Sconfiggere la paura atavica del buio.
E del sangue.
La mia mano non ha tremato e, soprattutto, non ho avuto paura.
Quella di non incidere più a fondo è stata, alla fine, una mia scelta.
Il coraggio della morte mi ha rivalutata.
LA STORIA DI ALDA
TENTATIVI D’IMPLOSIONE
…eppoi da una distanza siderale è arrivata LA VOCE.
Beffarda e irridente.
Cattiva.
La sentivo davvero.
A volte ero certa che fosse solo nella mia testa, ma mi è capitato spesso di udirla proprio da fuori.
Mi voltavo per individuarne la provenienza, ma non c’era mai nessuno.
Ferocemente sarcastica, mi appellava con nomi indicibili, irrideva la mia goffaggine.
Beffeggiava il mio modo di essere.
Era soprattutto di giorno che la sentivo, più raramente di notte.
Non colloquiava con me, ma mi giudicava con il distacco crudele di un occhio esterno.
Nulla le sfuggiva.
Con lei ero totalmente allo scoperto.
All’inizio avevo paura d’impazzire poi, invece, la possibilità della follia era diventata una specie di sollievo.
La follia ed il sonno, erano le sole due cose a cui aspirassi.
Dormivo molto poco, con inevitabile perdita della concentrazione e della prontezza dei riflessi.
Per un periodo lunghissimo non sono stata in grado di leggere, né di ascoltare musica, né seguire la tv (ma quella non la guardo neppure ora).
I miei passatempi preferiti erano la conta dei miei passi nel corridoio di casa e il controllo delle lancette, eternamente ferme, dell’orologio.
Quando era stanca di questo mi sedevo e fissavo il bianco delle pareti (poi sono arrivati fantasmi muti ad animarle).
Quando invece mi sentivo più reattiva ero in grado di spostare lo sguardo sui rami del grosso albero piantato in strada, sovrastanti la balaustra del mio balcone.
Quanto ho desiderato l’implosione della follia!
Per sfuggire da me stessa e per essere quello che davvero avrei desiderato essere e che non è stato possibile fossi: una schizzata, l’esatto opposto della mia fin troppo razionale Identità Predefinita.
LA STORIA DI NICOLE
LA SINDROME DI STOCCOLMA
Mi rendo conto di avere una struttura di nervi molto fragile, e che il grande dispiego d’energie usato per l’autocontrollo l’indebolisce ulteriormente.
Prima, per me, l’autocontrollo era normalità.
Autocontrollata, era quello il mio modo d’essere: non dire, non fare, non pensare, tutto ciò che avrebbero potuto mettere in discussione la mia immagine di superficie.
Questo equivale a vivere in una prigione dalla quale, però, sei apparentemente libera di uscire, perché tanto i tuoi guardiani sanno che volontariamente ci rientrerai, senza fare storie e senza creare problemi, perché fuori da quella cella non sapresti vivere. Non sapresti dove andare.
Ami perfino i tuoi secondini, acquisendo la convinzione che non vogliono farti del male, piuttosto sono lì a proteggerti non solo dai pericoli esterni ma soprattutto da te stessa.
Un regime carcerario all’apparenza all’avanguardia e molto soft, ma nella realtà assolutamente il più violento perché la fiducia delle guardie è accreditata dalla cancellazione della tua identità.
Entrare ed uscire dalla cella.
E quella pensi sia la libertà.
Ti senti privilegiata, guardi compassionevole chi in quella prigione, invece, non gode del tuo stesso diritto.
Poi un giorno, all’improvviso e senza nessuna causa apparente, una consapevolezza nuova s’insinua nei gangli del tuo cervello.
Ti risvegli dal tuo sonno comatoso e ti trovi proiettata in una realtà che non ti appartiene, perché in quel tempo non vissuto sei stata catapultata in un’altra a te estranea.
E vedi finalmente le sbarre.
E urli il tuo orrore.
E quella cella ora non si apre più.
Caduta la finzione di fiducia, si ristabiliscono i ruoli veri tra chi sorveglia e chi è in manette.
Guarita dalla emotività perversa della Sindrome di Stoccolma non ti rimane altro che lo sbigottimento per quello che è la realtà. E la rabbia per averla accettata.
Ti guardi allo specchio e sai di esserti persa.
E allora inizi a scavare, fino allo sfinimento, tra le macerie della tua identità.
Fatica inutile, perché le cause del terremoto sono tutte in superficie.
Facilissime da individuare.
Difficilissime d’accettare.