«Hai sentito?».
John alzò gli occhi stanchi dal bicchiere.
«Cosa avrei dovuto sentire?».
«Questo rombo… in lontananza. Non senti niente?».
L’americano restò un attimo in silenzio, teso ad ascoltare i rumori che venivano dalla calle San Ignacio.
Poi alzò le spalle.
«Sarà un temporale in lontananza».
Victor scosse la testa, dubbioso, ma tacque, rimettendosi in ascolto.
«Sei paranoico!» lo rimproverò John, battendogli una mano sulla spalla mentre si alzava.
«Dici così perché sei americano!».
«Chiamami con il mio vero nome: gringo! Non siamo tutti gringos, per voi?».
«Lascia perdere. Sono nervoso, ho paura, e tu sei ubriaco».
«E’ da quando ti conosco che hai paura!».
«Da prima: è dal ‘settanta».
«Dalle elezioni? Addirittura?».
«Ricordi cosa ha detto il tuo amico Kissinger?».
«Kissinger non è mai stato mio amico!» disse John, ridiventando improvvisamente serio.
«Ha detto: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.” Secondo te cosa intendeva dire?».
«Ma non è successo niente, no? E sono passati tre anni…».
«Tre anni sono pochi, John. Io sento il falco che gira intorno alla preda. Aspetta solo il momento buono per calargli sopra e ghermirla».
«Come sei teatrale! Bevi un bicchiere di whisky, l’unica cosa buona dell’America».
Victor Jara alzò il bicchiere.
«Cosa ci vuoi fare» disse « essere teatrale è il mio mestiere!».
«Così mi piaci già di più, anche se i tuoi occhi ti tradiscono».
«Sei un rompicoglioni, John» rise Victor, e per un attimo i suoi occhi scuri si illuminarono.
«Questo non sei…»
L’americano si interruppe. Un rumore crescente fece tintinnare i vetri del bar, poi un rombo possente arrivò a far tremare i muri. Victor Jara si era alzato in piedi, terrorizzato.
«Aerei!» disse, con la voce tremante.
«Sono Hawker» confermò John, facendo ricorso alla sua esperienza di militare dell’aviazione «riconoscerei il rumore tra mille».
«Ma sulla città! Volano bassi! Cosa stanno facendo?».
Un rumore di esplosioni vicine fu la risposta alle sue domande. I due amici si precipitarono fuori e videro una nuvola di fumo nero alzarsi dalla zona di Consitution Plaza.
«La Moneda!» sussurrò Victor «stanno attaccando la Moneda! Ecco cosa erano quei rumori, erano carri armati!».
A confermare quello che diceva cominciarono a sentirsi raffiche di mitra in lontananza.
John prese l’amico per la manica.
«Vieni, dobbiamo andare via! Ti porto all’ambasciata, lì saremo al sicuro!».
«Proprio all’ambasciata americana sarò al sicuro!» disse amaramente Victor.
«Ci sarò anche io! Non oseranno farti niente!».
Victor si scrollò la mano di dosso.
«No, devo andare alla Universidad! E’ lì il mio posto!».
«Ma sei impazzito? Se è in corso un golpe e ti trovano rischi che ti ammazzino! Ti conoscono tutti!».
Ma Victor Jara era già uscito in strada. John lo seguì, sotto gli occhi del barista che non ebbe il coraggio di fermarli per il conto.
Adesso il crepitio dei mitra si era fatto più frequente e più vicino. Il cileno camminava veloce, quasi in mezzo alla strada, l’americano lo seguiva tenendosi a ridosso dei palazzi. Non transitava neanche una macchina.
«Devono esserci dei blocchi stradali!» esclamò John.
L’altro non rispose: continuava a camminare come in trance. Come furono nei pressi della Universidad incrociarono camionette militari che li sopassarono senza badare a loro.
«Vieni via!» implorò l’amico «sta davvero succedendo qualcosa di grave!»
Victor lo guardo con un’espressione triste e febbricitante insieme.
«Adiós, mi amigo».
E attraversò la strada, dirigendosi verso l’ingresso.
John rimase a guardarlo mentre camminava deciso. Intorno a lui ragazzi che scappavano dal palazzo dell’Università e altri che invece accorrevano. Qualcuno aveva una vecchia pistola, altri bandiere della República de Chile, la stella bianca che sembrava danzare disperata nel vento.
Altri militari stavano affluendo, adesso erano camion da cui scendevano soldati armati che correvano a prendere posizione, come fosse una guerra.
John fece per allontanarsi, ma un drappello di militari con una fascia bianca sul braccio lo fermò.
«Documentos, por favor!» intimò il graduato.
«Soy estadounidense!» protestò John, mostrando il passaporto.
Il militare lo prese, guardò sospettoso il giovane biondo e dalle spalle larghe, poi la fotografia, quindi restituì il documento, facendogli segno di andare via.
John non se lo fece ripetere e arretrò per la strada da cui era venuto. Prima di svoltare l’angolo guardò ancora verso l’amico, che ormai era un puntino scuro tra la folla che si accalcava. Fu l’ultima volta che lo vide. Vivo.
John Balton prese per mano la moglie per aiutarla a scendere l’alto gradino. Il figlio lo superò d’un balzo e si voltò verso di lui.
«Papà, è qui che…?».
«Sì, Sal, è proprio qui che è successo» confermò il padre.
«Che cosa orrenda!» disse la moglie, mettendosi una mano davanti alla bocca.
Niente lasciava capire l’orrore di quasi quarant’anni prima. Il tempo aveva trasformato tutto, e diluito anche i ricordi della più immane delle tragedie, l’olocausto di una intera generazione.
«E’ questo lo stadio che…?»
John chinò la testa.
«Questo a quei tempi era lo Estadio Chile. Doveva essere un tempio dello sport, un luogo in cui gli uomini si univano nel divertimento…»
Sal e la moglie di John, Vera, alternavano gli sguardi tra l’uomo e l’immenso stadio vuoto.
«Sei stato qui molte volte, quando eri a Santiago?».
«Sì, come tutti. C’erano diverse squadre di Santiago che giocavano nella Primera Division, ma non ho mai capito il calcio, così venivo qui a vedere il basket».
«Che silenzio che c’è!» esclamò Vera.
Le gradinate vuote sembravano farle eco, e la voce rimbalzava da una parte all’altra dello stadio deserto. John si mise una mano sugli occhi e barcollò, tanto che la moglie fece per sostenerlo, ma lui l’allontanò con un gesto.
«Questo stadio da luogo di pace diventò un inferno di terrore, tortura e morte. Migliaia di giovani vite furono trucidate, migliaia di donne stuprate, migliaia…».
«Anche il tuo amico Victor era qui?».
John strinse con forza la ringhiera di ferro a cui si era appoggiato, finché le nocche delle dita non diventarono bianche.
«Sì…» mormorò infine.
I tre rimasero in silenzio. Da fuori veniva ogni tanto il rumore del traffico, clacson che strombazzavano, ma lontani, attutiti. Il ragazzo scese ancora alcuni gradini e si fermò davanti ad un muro che recava una scritta:
¡Canto qué mal me sales
cuando tengo que cantar espanto!
Espanto como el que vivo
como el que muero, espanto
de verme entre tantos y tantos
de verme entre tantos y tantos
momentos del infinito
en que el silencio y el grito
son las metas de este canto.
Lo que veo nunca vi.
Lo que he sentido y lo que siento
hará brotar el momento…
«Cosa significa, papà?» chiese.
John tradusse, ad occhi chiusi:
Canto, come mi vieni male
quando devo cantare la paura!
Paura come quella che vivo,
come quella che muoio, paura
di vedermi fra tanti, tanti
momenti dell’infinito
in cui il silenzio e il grido
sono le mete di questo canto.
Quello che vedo non l’ho mai visto.
Ciò che ho sentito e che sento
farà sbocciare il momento…
Sal rimase in silenzio davanti alla scritta, cercando di afferrare il significato di quei versi. Vera prese sottobraccio il marito e lo spinse verso il tunnel che portava all’uscita.
«Te l’ho detto, caro, che era meglio non tornare qui: troppi ricordi…»
«No, Vera, è stato giusto ritornare per rendere omaggio alla memoria del mio amico e delle centotrentamila vittime del macello di cui anche io mi sento responsabile».
«Ma tu cosa c’entri? Eri suo amico, hai rischiato anche tu di finire in questo posto!».
«No, io e tutti noi c’entriamo perché siamo americani, estadounidenses».
«Anche io, papà» chiese Sal.
John ritrovò un mezzo sorriso e battè sulla testa del figlio.
«No, tu non eri ancora nato» disse ‘ma anche le tue mani sono già sporche di sangue, figlio mio!’ pensò, e nelle sua mente scorrevano immagini di altre prigioni, altri stadi, altri campi di tortura.
I tre scesero l’ultima rampa di scale, ringraziarono il custode che li aveva lasciati entrare e uscirono sulla strada. Il guardiano rinchiuse i battenti con un rumore di metallo che fece trasalire John. L’americano si voltò di scatto per istinto, ma vide solo la cancellata di ferro nero e la scritta «Estadio Victor Jara».
Allora ebbe un attimo di esitazione, poi si fece rapidamente il segno della croce e ritornò verso la sua famiglia che era alcuni passi avanti.