La collina era verde, tranquilla. La notte aveva popolato il cielo terso di milioni di stelle. L’aria fredda, pungente, faceva tremolare le luci della città sul limitare della pianura.
Gli animali notturni erano usciti dalle loro tane e si aggiravano per la campagna, chi in cerca di prede, chi intenzionato a non diventarlo. Era tutto un insieme di leggeri rumori, squittii, corpi che frusciavano nell’oscurità, richiami rauchi di uccelli notturni, e sotto le loro zampe innumerevoli insetti.
Dappertutto, ma non sulla sommità della collina: gli animali si tenevano lontani da quel luogo, come se sopra ad esso vi aleggiasse un’oscura maledizione.
In realtà qualcosa sulla collina c’era: sospesa a non più di un metro da terra stava una grande cupola, ricoperta di un materiale che la rendeva invisibile e trasparente alla luce, così che attraverso di essa un passante avrebbe potuto ammirare il cielo.
Dentro alla cupola l’ambiente era quello di un qualsiasi laboratorio: grandi superfici chiare, illuminazione diffusa, banchi di lavoro, sedie. Poiché era destinata ad essere abitata per un lungo periodo, dentro era presente il necessario per preparare il cibo e le attrezzature utili a rendere gradevole la permanenza, come zone in cui fosse possibile rilassarsi, dormire, o intrattenere relazioni sociali.
L’insediamento era attivo da giorni, ma sembrava che i dati necessari fossero stati raccolti: mancavano soltanto alcuni osservatori che si erano spinti ad analizzare habitat inusuali e che stavano rientrando alla spicciolata, ognuno con il suo carico di informazioni destinato ad alimentare la banca dati del complesso.
Il responsabile della spedizione aveva smesso di coordinare le varie squadre, ed era ormai occupato a verificare che i preparativi per il ritorno fossero eseguiti in maniera scrupolosa. Il quadro che era emerso dai rilievi in quella zona confermava quanto trovato negli altri siti: la razza dominante stava rapidamente consumando le risorse di quel mondo e sarebbe andata incontro ad una catastrofe in poco tempo. Sopra di loro, in orbita geostazionaria, l’astronave madre aspettava.
La paratia esterna si smaterializzò per lasciar passare l’esploratore di ritorno. Un soffio di aria gelata percorse la cupola, facendo rabbrividire i tecnici al lavoro. Il responsabile e il suo collaboratore non avevano prestato attenzione al rientro, ma furono costretti a distogliersi dai loro calcoli quando una luce rossa si accese sui monitor.
«Cosa sta succedendo?» chiese il capo.
«E’ una richiesta di ascolto con massima priorità» rispose l’altro, «dall’osservatore appena arrivato».
Il responsabile ebbe un gesto d’impazienza.
«Continua tu il lavoro», disse, alzandosi, «tornerò appena possibile».
L’altro non rispose e si mise al suo posto.
La sala era posizionata dall’altro capo della cupola, e il responsabile impiegò alcuni minuti ad arrivarci, schivando tutti gli oggetti che erano stati accumulati in vista della partenza. Si posizionò davanti alla parete e attese che si aprisse il varco per farlo entrare.
Nel piccolo locale, oltre all’esploratore erano presenti i rappresentanti della sezione scientifica della spedizione. Cosa era successo?
«Ci sono degli sviluppi», esordì lo scienziato anziano.
«Sviluppi? Quali sviluppi?»
«L’osservatore qui presente», e indicò il giovane esploratore alla sua destra, «ha riportato alcuni dati che ritiene molto interessanti e che dovremmo esaminare congiuntamente».
«Congiuntamente? E perché?»
«Se smette di ripetere quello che dico glielo spiego. Si tratta di una testimonianza molto particolare, che temiamo si possa deteriorare rapidamente».
«Che…» Il responsabile si rese conto che stava per cadere ancora nella ripetizione e tacque.
«Si tratta di una immagine mentale», intervenne l’osservatore.
«Immagine mentale? Ma abbiamo verificato da tempo che la razza dominatrice di questo mondo non è in grado di proiettare immagini mentali!».
«Infatti non è da loro che proviene», confermò lo scienziato, «ascoltiamola».
I quattro si misero sul capo i caschi per condividere l’immagine mentale senza interferenze e si concentrarono per non perdere particolari importanti.
«Pronti?»
Tutti assentirono. L’osservatore chiuse gli occhi e cominciò la trasmissione.
L’immagine comparve immediatamente.
«E’ nitida in maniera sorprendente!» esclamò lo scienziato più giovane. Gli altri gli fecero cenno di tacere.
«Benvenuti tra noi, abitanti di un mondo lontano. Sappiamo che provenite da una stella situata in una galassia lontana trecentocinquanta milioni di anni luce da qui, e che siete in grado di viaggiare attraverso i corridoi spazio-temporali…»
I due scienziati e il responsabile della missione si guardarono, stupiti, mentre l’osservatore continuava la sua trasmissione.
«…Sappiamo che avete analizzato questo pianeta per determinare se esiste una razza di intelligenza superiore. Questa razza esiste e siamo noi».
L’immagine mentale tacque per qualche istante, come per lasciare tempo agli ascoltatori di metabolizzare il significato di quanto aveva detto.
«La prova di quanto affermo», continuò, «è questo semplice messaggio che vi ho inviato, e non occorre altro. Adesso vi racconterò la nostra storia»,
Altra pausa. L’osservatore aprì un attimo gli occhi, smarrito, ma li richiuse subito.
«Questo pianeta ha un’età di circa 4,5 miliardi di rivoluzioni intorno alla sua stella. Noi avemmo origine cinquecento milioni di rivoluzioni dopo, approssimativamente, ma lo sviluppo primigenio fu lento. Come ogni specie passammo attraverso varie fasi, sviluppammo la nostra intelligenza, un fisico adatto a sostenerla, una tecnologia e varie, molte, società. Facemmo errori e anche noi, come innumerevoli razze che si sono succedute, corremmo il rischio di distruggerci, ma non successe. In ere ormai remote arrivammo alla piena coscienza di noi stessi e giungemmo alla completa maturazione della nostra tecnologia, che ci permise di conquistare il nostro mondo e poi lo spazio. Il passo successivo fu vincere la morte».
A queste parole gli ascoltatori ebbero un sobbalzo. Cosa intendeva dire chi aveva creato quell’immagine?
«I nostri pensatori erano arrivati a comprendere che l’essenza della vita non stava nella fisicità ma nella coscienza, e che la coscienza di esistere era un delicato meccanismo comportamentale che legava l’individuo al suo ambiente. Comprendemmo di essere manifestazioni temporanee di un tutto unico, e giungemmo a comporre questa differenziazione…»
«Una mente collettiva!» proruppe lo scienziato più anziano.
«Sì, una mente collettiva», confermò la voce, tra lo stupore dei suoi ascoltatori.
«Non sei una semplice immagine, sei un’entità!» proruppe il responsabile.
«Qualcosa del genere. Ho preso temporaneamente ospitalità nel vostro osservatore per poter arrivare fino a voi».
I tre guardarono l’esploratore, che non dava segni di aver compreso quello che stava succedendo.
«Non abbiate timore, non gli verrà fatto alcun male», li rassicurò l’entità.
«La mia razza ha ritrovato la sua unità in una mente comune. Siamo miliardi di miliardi di individui che condividono quest’unica mente e siamo ovunque, sulla superficie della terra e nel più profondo degli oceani. Non conosciamo la morte. Una piccola parte di noi è rimasta su questo mondo, a conservare il ricordo delle origini, gli altri sono partiti per le stelle, a seminare la vita nell’Universo e a garantirci la continuità dopo che questo sole sarà consumato. Anche voi siete nostri figli».
Un profondo silenzio scese sulla saletta. I tre erano rimasti tanto colpiti dalla testimonianza che adesso guardavano increduli l’esploratore, come se fosse stato lui a parlare. Il primo a riscuotersi fu lo scienziato più anziano.
«Ci stai dicendo che puoi offrirci la vita eterna?» chiese.
«Forse. Ma ogni razza deve conquistarla. Vi offro una possibilità, perché vi ho detto che esiste».
«Ma dove siete nascosti su questo pianeta?» chiese il responsabile della missione, «abbiamo esplorato ogni angolo e la razza dominante abbiamo creduto fosse quella dei bipedi che hanno occupato ogni spazio!»
«Vi ho detto che noi siamo ovunque. Quella razza è una delle tante che si sono succedute su questo pianeta, ed è sul punto di scomparire come è stato per tutte. In alcuni casi è successo per l’impatto di un corpo celeste, altre volte si sono distrutti da soli, ed è quello che accadrà a loro tra non molto.»
«Ma voi chi siete? Perché vi nascondete?» insistette.
«Noi non ci nascondiamo. Ogni creatura nell’universo si può rappresentare schematicamente come un tubo: da una parte entra il nutrimento, dall’altra vengono espulsi gli scarti. Intorno c’è quanto è necessario alla vita: muscoli, organi, supporti scheletrici, non ha importanza. Noi abbiamo ottimizzato questo schema.»
«Come possiamo trovarvi?» chiese l’anziano.
«Guardatevi intorno», disse la voce, «siamo ovunque. I bipedi ci chiamano vermi».