Nell’opera di Shakespeare c’è una quantità impressionante di Italia, ma Shakespeare ci venne mai a trovare?

Mistero.

È capace che banalmente lesse tantissima roba italiana e trasferì l’italianità così acquisita nella sua opera.

Ma che importa se venne o non venne?

Andiamo noi da lui.

Saliamo in macchina con destinazione Poggiardo, profondo Salento.

Alle 19:20 arriviamo sul piazzale della piscina e parcheggiamo.

Sole prossimo all’orizzonte e caldo afoso.

Un gruppo di persone qua, uno là, uno ancora più in là ma il piazzale è talmente ampio da sembrare deserto.

Tranquillità, torpore, sonno.

Dai giardini intorno al piazzale arriva a stento il canto delle cicale e qualche rumore cittadino attutito.

Calma piatta. Orizzonte basso. Cielo immenso, azzurro, leggera foschia.

Alle 19:30 arriverà puntuale un misterioso autobus che ci porterà in un posto segreto a vedere “Shakespearology”, uno spettacolo al tramonto in un luogo segreto organizzato da Ultimi Fuochi Festival, una compagnia salentina che propone cose strane in posti strani.

Aspettiamo.

La mia macchina appena lavata è pulita e fiammante. All’improvviso arriva sul piazzale uno scriteriato con un potente soffiatore motorizzato e comincia a spazzare il piazzale sollevando un gran polverone. Mi sveglio, risalgo in macchina e vado a parcheggiare l’auto lontano dal polverone. Le mie donne fanno battute e ridacchiano, come a dire “affar tuo, ti tocca”.

Con soli 15 minuti di ritardo, alle 19:45 arriva puntualissimo un pullman turistico un po’ datato, saliamo e lo riempiamo anche se sul piazzale sembravamo quattro gatti. Prendo posto poco dietro l’autista e, vivaddio, c’è l’aria condizionata.

Partiamo.

Il pullman esce da Poggiardo e prende la strada per Spongano. Un ragazzo ed una ragazza che immagino siano tra gli organizzatori, dialogano con l’autista sulla strada da prendere una volta arrivati a Spongano. Consultano Google Maps, fanno telefonate e si prodigano a suggerire all’autista l’esatto percorso. La ragazza è seduta accanto a me ed il ragazzo dietro di me; mio malgrado seguo quindi l’evolversi della situazione mentre guardo fuori dal finestrino godendomi i panorami del tramonto e del crepuscolo che cala su campagne e case.

Mi pongo l’atavica domanda: “Saremo capaci di fare le cose per bene?”.

Il ragazzo solleva qualche dubbio che il pullman possa farcela a percorrere alcune stradine di campagna.

«Oh Signore! Ve stati picca picca citti? Ce problema ncede? Nu be’ preoccupati, sacciu ieu ci aggiu ffare e la via ca aggiu pijare!» Esclama l’autista. (Oh Signore! Vi state poco poco zitti? Che problema c’è? Non preoccupatevi, lo so io cosa ho da fare e la strada che ho da prendere!).

Arriviamo ad una rotonda, svoltiamo a destra, entriamo a Spongano e poi svoltiamo a sinistra imboccando una stradina.

«Mi sa che stiamo sbagliando strada» dice pensierosa la ragazza seduta accanto a me.

«Come stiamo sbagliando strada? La scuola media dove dobbiamo congiungerci con l’altro pullman non è là in fondo a destra?» Chiede l’autista.

«Mi sa di no. Boh? Non consco bene il posto. Vediamo un pochettino se la scuola media è laggiù» risponde la ragazza smanettando su Google Maps senza raccapezzarsi.

Niente da fare: arriviamo in fondo alla stradina a siamo costretti a prendere una via di campagna alla ricerca di una radura abbastanza ampia da permettere al pullman di fare inversione di marcia e tornare indietro mentre la ragazza bisticcia al telefono con una dirigente: «Non ci sono mappe che tengano, sarà la decima volta che te lo ripeto! I pullman hanno bisogno di una guida che conosce perfettamente i posti altrimenti ci perdiamo ogni volta nelle campagne!» Grida con foga la ragazza, un po’ sudata e rossa in viso.

Quelli che siedono in fondo al pullman scherzano e giocano, sembra che non si accorgano di nulla; hanno un qualche aggeggio musicale che trasmette pizzica pizzica mentre alcuni bambini strillano.

«Dovevamo entrare a Spongano lasciando la provinciale alla rotonda precedente» irrompe galvanizzato il ragazzo dietro di me fissando il cellulare.

«Sì,» conferma a quel punto mia sorella che conosce un pochettino Spongano «la scuola media è vicina a quell’altra rotonda».

«Grazie al cazzo! Adesso me lo dite?» Sbotta con garbo l’autista.

Dopo varie peripezie riusciamo a tornare alla rotonda giusta ed ad arrivare sul piazzale della scuola dove un altro pullman carico di pubblico ci aspetta.

Ci accodiamo all’altro pullman e ripartiamo con destinazione nota solo agli organizzatori.

Naturalmente tra mappe, discussioni e telefonate ci perdiamo un’altra volta per stradine di campagna. Continuo a guardare i panorami oltre le chiome spelacchiate degli ulivi ma l’avventura in corso mi mette un po’ di suspense. Ad un certo punto noto un ragazzo in scooter che ci sorpassa, gesticola verso l’autista del pullman che ci precede e si mette in testa per guidarci a destinazione.

Arriviamo nel luogo segreto prestabilito con oltre un’ora di ritardo. Lo spettacolo doveva essere al tramonto ma sarà di notte, pazienza. In compenso sono nel mio brodo primordiale: facciamo, diciamo, creiamo e organizziamo affidandoci spesso al fato, alla provvidenza, alla botta di fortuna. Intanto partiamo, poi si vedrà. Siamo un po’ così. Menefreghismo? Tira a campare? Apatia? Pressappochismo? Boh? Diciamo che siamo a volte un po’ rilassati e lavoriamo il triplo per fare poi le cose. A volte l’efficienza è per noi un mistero ma ci salva la buona volontà, la verve, l’affabilità, il darsi da fare, la taranta ed il sangue che bolle nelle vene, prova ne sia che i telefonini erano roventi, l’ala protettrice dei navigatori confondeva le idee, mia sorella consigliava a scoppio ritardato, l’autista sbottava e la ragazza accanto a me sbraitava e sudava a dispetto dell’aria condizionata. Può essere che viviamo un po’ sognando e che per questo nessuno si arrabbia più di tanto se qualcosa va storto. Può essere. Non siamo forse fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? Il bardo lo sosteneva. Quella che crediamo realtà è forse un sogno e la morte è forse il risveglio da un sogno che chiamiamo vita.

Scendiamo dal pullman e percorriamo a piedi una strada a sterro con pietrisco e qualche buca. Sole sotto l’orizzonte e visibilità scarsa. Peccato che le mie donne non mi abbiano permesso di portare il cane. Dora sarà impegnata a rifugiarsi sotto al letto matrimoniale a causa dei fuochi d’artificio delle feste agostane che sono frequenti nei paesini vicini; qua con noi si sarebbe invece divertita un mondo. Trattengo il rammarico altrimenti i miei mi abbaieranno all’unisono: “Tu vedi cani qui?”.

Arriviamo ad un banchetto sistemato tra due ulivi e paghiamo il biglietto a mia nipote; fa la cassiera per dare una mano ai suoi amici della compagnia teatrale. Ci inoltriamo in un grande uliveto ed arriviamo su uno spiazzo terroso sul quale hanno sistemato le sedie per gli spettatori ed un palcoscenico consistente in una semplice piattaforma di legno. L’unica scenografia sono gli spettri degli ulivi circostanti rinsecchiti dalla Xylella fastidiosa. Poco distante c’è un lungo banchetto con acqua, bevande, gelato e tarallini al vino e finocchio; dice che è compreso nel prezzo del biglietto. L’illuminazione è assicurata da una miriade di lucette alimentate da un generatore il cui rumore si avverte a stento.

Prendiamo posto sulle sedie mentre mia sorella mi indica una zona dell’orizzonte in cui c’è una luce lattescente e mi dice che lì c’è il centro commerciale Gulliver; siamo quindi in un uliveto situato sulla leggera specchia sponganese che per alcuni chilometri affaccia sulla Statale 275 per Santa Maria di Leuca, a metà strada tra Nociglia e Montesano. La contrada si chiama “Le More” ed è un immenso bosco di ulivi che ora è spettrale per via della Xylella fastidiosa. Avendo le fronde secche, gli ulivi sono spelacchiati e fanno filtrare la luce lunare nel sottobosco. La campagna sembra popolata da spettri e fantasmi.

Una volta che il pubblico si è sistemato, una presentatrice prende il microfono, chiede scusa per gli inconvenienti ed annuncia un cambio di programma dettato dalla necessità di recuperare tempo; dice che ci conviene andare al banchetto delle bevande e dei taralli a prenderci l’occorrente per poi tornare subito a sederci e degustare permettendo così di evitare l’intervallo durante il quale era previsto il rinfresco.

Ottimo!

Trambusto generale. Andiamo e torniamo con calici di vino, taralli e quant’altro.

Riprendiamo posto.

Una ragazza suona e canta tre o quattro canzoni senza infamia e senza lode e poi comincia Shakespearology.

Lo spettacolo, con solo qualche voce fuori campo, è essenzialmente un monologo sostenuto da Woody Neri (compagnia fiorentina Sotterraneo), un tipo che oltre ad essere attore si rivela anche cantante e chitarrista. Si tratta di una vertiginosa corsa a raccontare in 52 minuti i misteri dei 52 anni vissuti da Shakespeare. Scrisse davvero lui le commedie che a lui attribuiamo? Come e dove visse? Come diventò famoso? Cosa fece nei numerosi e misteriosi anni di cui non esistono tracce della sua esistenza? Che rapporto ebbe con le donne, con gli amici e con i figli? Quali viaggi fece? Incontrò Cervantes o semplicemente lo lesse?

Gioie, delusioni, dolori. Risate, tristezze, pianti. Arte, storia, cultura.

Esilarante ma istruttivo il confronto tra il teatro dei suoi tempi e quello odierno.

Ah! E così voi oggi cuccate quattrini dall’Europa per diffondere cultura? Ammazza che bello! Un vero sogno, beati voi! Ai miei tempi invece se non eravamo bravi ad attrarre spettatori paganti morivamo di fame”.

Tante domande ma nessuna risposta che aggiunge nuova informazione a quanto già sappiamo sul bardo; indice di onestà ed equilibrio in un mondo in cui l’uomo non è mai andato sulla luna, il crollo delle torri gemelle fu organizzato dalla CIA e rischiamo di essere governati da terrapiattisti se non lo siamo di già. Woody Neri o chi per lui è quindi onesto e, mentre nascono corsi di laurea per formare professionisti capaci di scoprire i misteri di Shakespeare, continuiamo a non sapere se quel genio vide mai il mare o venne mai in Italia.

Nel complesso lo spettacolo è stato affascinante anche per i richiami a quanto accade oggi nel mondo. Woody Neri davvero bravo come attore ma anche a suonare e cantare.

Un solo appunto: non siamo nella Milano dell’alta finanza e dei manager che arrivano brillanti ai meeting aziendali sfoggiando patinate presentazioni in power point. Siamo nella terra rossa del Salento. Qui abbiamo gechi, tarante, pizziche e pietre ma anche sogno, magia e mistero. Venendo per parlarci di Shakespeare, Woody Neri ha perso l’occasione per sottolineare l’impressionante analogia tra genio e luogo visto che in comune hanno ciò che maggiormente caratterizza entrambi: sogno, magia e mistero.

Ritorniamo ai pullman al lume dei telefonini e la serata finisce magicamente in trattoria.

A partire dal villico che ha sollevato polveroni sul piazzale della piscina, il tutto è stato un sogno di una notte di mezza estate, forse perché avevo con me l’intera famiglia, mia sorella piccola ed una nipote. Un raro sogno felice ma non esiste nulla nel Salento che non abbia il sapore del sogno. Così a me pare; forse perché ci sono nato.