SCARPE
Cosa mai ingenera la passione per le calzature nell’animo umano? E, soprattutto, come fa questo sentimento a radicarsi fin dai primi anni? Ripensando a svariati episodi della mia vita, mi è saltato agli occhi (della memoria) che molti sono legati ad un paio di scarpe. Effettivamente le vetrine dei negozi di calzature sono la seconda cosa che mi fermo a guardare dopo una libreria e subito prima di un ferramenta, ma ci deve essere dell’altro, qualcosa di innato perché le scarpe hanno un posto importantissimo nella mia vita fin dagli esordi.
Il primo ricordo arriva dal racconto di mia madre perché non ne ho memoria, visto che risale a quando avevo poco più di un anno e riguarda un paio di scarpe rosse, colore molto amato dalla mia genitrice che amava farmi indossare capi fiammeggianti, mentre io avrei preferito vestire un anonimo e inosservato grigio topo. Ma quelle prime scarpette rosse ebbero un impatto enorme sulle mie emozioni, al punto tale che pretesi di andarci a dormire. Naturalmente mia madre disse di no, ma siccome ero molto convincente nella rivendicazione di quello che ritenevo un mio pieno diritto, fu costretta ad un compromesso: tolsi le scarpe, lei le mise in una busta e io ci dormì abbracciata come fossero un orsacchiotto. La cosa andò avanti per alcuni giorni.
La mia infanzia, come quella di tutta la mia generazione, è costellata di scarpe “con gli occhi”, quelle specie di buffe calzature con due aperture che sembrano appunto occhi sul davanti della tomaia. Io le odiavo perché erano “da maschio”. In realtà si sarebbe detto in epoca più moderna che erano “unisex”, comodissime, ma brutte e mortificanti per una bambina che non era leziosa, ma rivendicava la sua femminilità. Dovevo già combattere con i capelli corti, che mia madre mi faceva tagliare nella vana speranza che si rinforzassero e sopperivo a questa mortificazione attaccandomi foulard alla corta chioma, fingendo di essere Lady Godiva junior, le scarpe no! Quelle dovevano essere da femmina, punto e basta. E fu così che un pomeriggio di fine settembre, in vista del ritorno a scuola, che in tempi preistorici cadeva il 1° ottobre, trascinai mia madre nel negozio del Calzaturificio di Varese in Via Scarlatti e le indicai un paio di scarpette blu con i cinturini assai carine. La commessa le portò, me le fece calzare e io sentii subito che erano un po’strette, ma non dissi nulla. Mia madre provò empiricamente, come si usava premendo il dito sul mio alluce, la misura. “Come te la senti?” mi chiese. “Benissimo!” dissi mentendo col terrore che la misura più grande non ci fosse. Mia madre nicchiò, chiese comunque alla commessa il numero più grande, lei rispose che non c’era, ma che, ad un secondo controllo, a lei sembrava che andassero bene. Due contro uno vinsi io e comprammo le scarpe. Nessuno aveva mai pensato che io, come tantissime persone, potessi avere l’alluce più corto del secondo dito, così dopo aver resistito eroicamente per una settimana, facendomi venire le vesciche, dovetti confessare la mia colpa e oltre all’umiliazione mia madre mi strillò e mi assestò un paio di scapaccioni.
Avevo 11 anni, ero magra e ossuta, e durante una delle passeggiate che facevo con mio nonno, che durante tutta la mia infanzia aveva realizzato ogni mio desiderio, dalle bambole alle pistole con i colpi, mi spalmai sulla vetrina di un bellissimo negozio di calzature da adulti a Via Chiaia, una delle strade storiche dello shopping napoletano elegante. Ricordo ancora il nome, Scala. In vetrina aveva un paio di sandali di vernice nera molto semplici, due striscette orizzontali montate su una verticale con un piccolo fiocco di grosgrain e, meraviglia delle meraviglie, un pochino di tacco. Mio nonno capì subito, entrammo e chiese per me quei sandali. Avevo un vestitino a fiorellini e scarpe bianche con i calzini, nell’emozione misurai i sandali con tutti i pedalini e mi sembrarono comunque meravigliosi. Costavano uno sproposito, ma mio nonno pagò senza battere ciglio e io tornai a casa volando, stringendo la bellissima busta che non credo di aver buttato per anni: quando mi ricapitava di avere un altro paio di scarpe di quel negozio? Mia madre si arrabbiò con suo padre dicendo che erano soldi buttati, che non erano adatti, troppo da grande, con il tacco (un dito, giuro!). Io la guardai e candidamente dissi: “E’ proprio per questo che mi piacciono”.
Gli anni della giovinezza portarono grandi mutamenti, anche ideologici oltre che di costume. Dopo aver calzato stivaloni che arrivavano a metà coscia, di vernice, pelle, camoscio, sotto a hot pants e vertiginose minigonne, suscitando i commenti pesantissimi dei trogloditi senza battere ciglio, passai molti anni alternando le polacchine, come a Napoli si chiamano le Clark non di marca, con i mitici zoccoli neri chiusi sul davanti, portati rigorosamente con maxi gonne a fiorellini e maglioni oversize, possibilmente di seconda mano. Il primo paio di quelle strane calzature me lo feci comprare da mio padre. Il poveretto rimase esterrefatto non solo per la fattura delle “scarpe”, avendo lui sognato per me un paio di borghesissimi mocassino, magari con le nappine, ma dovendomeli comprare in farmacia perché era lì che si compravano. Pover’uomo! Ricordo ancora la sua faccia e il suo commento riferito al prezzo non proprio economico di quelle che a suo dire erano delle mostruosità, ma io ero felice: da sola non me li sarei mai potuta permettere e feci di tutto per farli durare il più a lungo possibile, arrivando a farci mettere un rinforzo di metallo in punta per non consumare la parte di legno e trasformandoli così in una bella arma di difesa che in quel periodo non guastava. In quegli anni ebbi solo un momento di cedimento davanti ad un paio di stivali bellissimi, tipo Camperos, ma meglio rifiniti, e la mia insana passione, dopo aver ottenuto un contributo dal mio fidanzato dell’epoca come regalo di compleanno e aver fatto economieall’osso, mi fece ripetere l’errore iniziale: non essendoci la mia misura precisa li presi stretti, convinta che avrebbero ceduto. Non lo fecero mai e dopo anni di tentativi, messa in forma, impacchi di alcool e stratagemmi vari, gettai la spugna e li regalai ad un’amica.
E arriviamo alle scarpe del matrimonio. Non essendomi sposata in chiesa, ma in un municipio di Budapest, le mie amiche insistettero per regalarmi abito e scarpe. Il vestito era un tailleur chiaro con un top color tabacco, le scarpe non potevano essere “ideologiche” anche se mi sposavo in un paese comunista. Così girammo per tutta la città nel mese di agosto alla ricerca di un paio di scarpe chiuse, perché nessuno sapeva che tempo avrebbe fatto ai primi di settembre in Ungheria, eleganti ma non troppo, con il tacco ma non troppo anche perché il mio piede era ormai abituato a spaparanzarsi tra polacchine e zoccoli e chissà se sarebbe mai più entrato in una scarpa normale. Alla fine la scelta cadde su un paio di décolleté nere con il cinturino intorno alla caviglia. “Scarpe da mignotta” dissi, scandalizzando anche le mie amiche, ma la mia era una battuta con un senso positivo in fin dei conti. Negli anni con quelle scarpe mia figlia Giulia ha spesso calcato le scene nei panni di diversi personaggi, uno su tutti Evita Peròn, durante gli anni in cui recitava con grande passione e bravura (e non lo dico solo perché sono sua madre, è brava davvero) e ogni volta tiravo fuori le “scarpe da mignotta” con grande soddisfazione perché, per una volta, qualcosa destinato per definizione a finire in una scatola dimenticata continuava a vivere mille altre vite.
L’età e la comodità mi hanno fatto propendere per calzature comode, prevalentemente da ginnastica, raramente stivali che nostalgicamente ricordano quelle morse terribili della mia gioventù, ma finalmente della mia misura. Le scarpe restano, secondo me, un segno distintivo della personalità, come nella celebre scena del film di Nanni Moretti “Bianca” o in quella meno nota di “Finalmente Domenica” di François Truffaut e lo sono anche quando sembra all’apparenza che non ci si faccia più caso, quando la stanchezza e il comfort hanno il sopravvento sull’eleganza. Io mi fermo ancora a guardare un bel paio di scarpe, ad ammirarle, ad apprezzarle anche se sono vestita come un incrocio tra una vecchia zia di campagna e un ex metalmeccanico in pensione.