Alice : per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: a volte solo un secondo.

(Alice in Wonderland)

 

Per quanto tempo è per sempre?
Mi aveva chiuso la bocca con un bacio e poi mi aveva sussurrato: per sempre è per sempre.
Ed io gli avevo creduto.
Mi ero addormentata tra le su braccia, un lungo sonno durato dieci anni, e poi, al risveglio, c’era lui con la valigia in mano che mi guardava, già sulla soglia, con aria colpevole.
Io allora gli avevo sorriso, e lui che quel sorriso non se lo aspettava, mi ha guardato sconcertato. Gliene sfuggiva il senso e non trovava il coraggio di chiedermelo. Ma forse non avrebbe neppure voluto, molto più brava di lui con le parole, avrei costruito con quelle il tranello di un labirinto psicologico entro il quale si sarebbe smarrito, dibattuto tra i sensi di colpa e la voglia di andarsene.
Per evitare la trappola di quel j’accuse lui s’era mosso silenziosamente, badando di non far nessun rumore per non svegliare la principessa addormentata nella sua bara di cristallo, così non ci sarebbe stata nessuna domanda a cui dar spiegazione.
O peggio ancora bugie, pietose ed imperfette, che la verità può essere troppo dolorosa anche per chi si confessa.
Non tutte le storie terminano con l’ultimo capitolo, ma nel momento in cui il lettore chiude la copertina del libro sulle pagine lette e a sua discrezione decide poi se continuarne o meno la lettura.
Pagina 22, pagina 58, pagina 100…ma non si arriva all’ultima se si perde interesse alla trama.

Ma indizi c’erano stati, piccole tracce come granelli di polvere su una superficie lucida.
Orme di una scarpina di cristallo che non era la mia. Non corrispondeva il numero.
Quelle impronte lillipuziane le avevo viste. Ed ignorate. Volutamente. E poi rimosse.
Ripulita la scena del crimine e disposta ad accettare i suoi alibi falsi. Autorizzandoli.
Perfino suggerendoli, per rendere vera la finzione ed impedire a lui l’imbarazzo della bugia.
Gli suggerivo io stessa, così brava con le parole, il copione, una trama ambigua, perché non giungesse alla battuta finale.
Fermavo in questo modo gli orologi.

«Stai per andar via?» Imprimo alla mia voce un tono normale. Avrò tempo dopo per piangere.

«Si» Risponde colpevole, abbassando gli occhi.

«E non tornerai.» Non è una domanda questa mia, piuttosto un’affermazione con cui fargli capire che conosco la storia e non gli chiederò spiegazioni, né dettagli. Non voglio umiliarlo estorcendogli un’inutile confessione.

Non risponde subito. Non è certo delle mie reazioni. La mia calma lo destabilizza. Non vuole ferirmi, si sente colpevole di essersi innamorato di un’altra e di non amare più me.

«Che ore sono?» Chiedo dal mio angolo di stanza.

«Cosa?» Mi risponde stupito di rimando

«Che ore sono?» Domando di nuovo, paziente

«Quasi le sette.»
E’ a disagio. Non sa dove voglia andare a parare con quella domanda, o se invece contiene un messaggio da decodificare e che a lui sfugge.

Quasi le sette: un’ora solo abbozzata. Un’ora da limbo. L’eternità, chissà perché, l’ho sempre immaginata piena e definita. Rotonda. Senza un prima e senza un dopo. “Quel quasi” stabilisce, invece, un’attesa, una trappola in cui rimanere impantanata per il resto dei miei giorni.
Quei pochi minuti allo scoccare dell’ora compiuta rappresentano il divario tra l’eternità definita e quella solo abbozzata. Non si bada all’ora in cui inizia una storia, ma quando finisce tutto acquista importanza, e allora il tempo lo si soppesa fino all’ultimo secondo. Ingiusto sarebbe che quell’eternità giurata finisse anche solo un secondo prima. Sarebbe quello l’imperdonabile tradimento.

»Che ore sono?»  Chiedo di nuovo

Lui guarda l’orologio: «sono le sette.»

«Chiudi la porta, per favore. E non voltarti indietro.»