LA REGINA NERA DAI CAPELLI DI SOLE
Kalifa, dalla terrazza della sua casa, aveva visto la piccola imbarcazione dibattersi per rimanere in equilibrio sul mare che montava in burrasca, tentando disperatamente di portarsi verso la riva.
Le campane avevano suonato per allertare gli isolani, e già gli uomini correvano per prestare i primi soccorsi, ma l’imbarcazione era ancora troppo lontana dall’approdo, schiaffeggiata dal vento e dall’acqua, girava in mulinello senza riuscire a recuperare la rotta.
Era troppo distante dalla riva per poter tentare un incerto, quanto rischioso, avvicinamento, perché le fragili barche dei pescatori, in balia del vento fortissimo, sarebbero state facilmente capovolte.
Bisognava domare il vento.
«Se il vento attenua la sua forza l’acqua si cheta.» Aveva detto Kalifa agli uomini assembrati nella Capitaneria.
«Se il sedare il vento rientra tra i tuoi tanti poteri, dimostracelo.» La provocò, beffardo, un giovane capitano.
«Dobbiamo intervenire solo nell’area di mare dove è posizionata l’imbarcazione, e dobbiamo farlo prima che il vento diventi tempesta.» Aveva spiegato lei, paziente.
«E come si doma il vento, Kalifa?» Aveva chiesto più d’uno.
«Con l’affiancamento di due navi di grande stazza che garantirebbero la protezione di un corridoio riparato. Il vento andrebbe ad impattarsi sulle fiancate più solide delle navi di soccorso che offrirebbero una copertura all’imbarcazione più fragile.» Aveva risposto lei con convinzione
«E’ un rischio troppo grande, col vento che sale di forza nessuna imbarcazione si può definire solida, e nessuno sarà così folle da voler tentare l’impresa.» Aveva ribadito, in tono ostile, il giovane capitano del mercantile “Genova”.
«Tentiamo noi della “Queen Cristina”.»
La voce, dal forte accento straniero, s’era alzata decisa sovrastando le altre e ristabilendo il silenzio.
L’uomo, che aveva parlato, indossava stivaloni e cerata, e fumava la pipa.
«La vostra offerta, capitano, è generosa, ma la vostra nave da sola non basta, ne occorre un’altra.» Obiettò qualcuno dal fondo della sala, ma lo straniero che aveva accolto la proposta di Kalifa, rilanciò la sfida: «L’idea della signora è buona, e noi stiamo sprecando tempo prezioso. Avanti, chi di voi se la sente di tentare con noi?»
Il giovane capitano che aveva bocciato la proposta, punto nell’orgoglio, si dichiarò pronto a collaborare.
Così la notizia del tentativo di salvataggio aveva allertato tutti, isolani e stranieri, che avevano allestito bivaccamenti per il primo soccorso, con bevande calde e coperte per accogliere i naufraghi, mentre Donna Reparata e Kalifa, a capo di un gruppo di volontari, avrebbero provveduto alle emergenze mediche.
Don Saverio, con la toga svolazzante nel vento, s’aggirava come un grosso fantasma scuro, con l’ampolla dell’olio benedetto per salvare almeno dalle fiamme dell’inferno coloro che non fossero scampati all’apocalisse delle acque.
Le due grosse imbarcazioni s’avventurarono tra i flutti irascibili e le bestemmie del vento, per soccorrere la piccola imbarcazione in pericolo che con le vele squarciate, ed il ponte divelto, iniziava ad imbarcare acqua.
Il vento saliva d’intensità e al largo ruggiva ancora più forte, mentre le navi preposte al salvataggio avanzavano lentamente dopo sfibranti scaramucce tra le chiglie ed i flutti.
Le campane avevano smesso di suonare.
C’era solo la furia del vento armato di lame di sole che micidiali oscuravano la vista.
Il mercantile “Genova” e la nave passeggeri “Queen Cristina” procedevano a tentoni, un paio di volte rischiando di perdere di vista la piccola imbarcazione esausta.
Quando finalmente la raggiunsero si posero come sentinelle di scorta ai suoi fianchi, mentre la navicella, a pelo dell’acqua, faticosamente riacquistava l’equilibrio.
Avanzavano come lente ombre nere sul mare incendiato dal vento colore di fiamma, in formazione compatta, con le due navi più grandi ai lati e la piccola al centro.
Le tre imbarcazioni giunsero a riva appena in tempo, miracolosamente schivando la rappresaglia di una tromba marina, una colonna d’aria di proporzioni immani sospinta, al loro inseguimento, da un vento che soffiava a 100 Km/h.
Quella sera le campane suonarono a festa in onore del coraggio dei due capitani e di Kalifa-domatrice-del-vento.
Anzi, le donne paiono ancora più belle, i capelli liberati dagli scialli che il vento ha strappato via, splendono di stille luminose di pioggia, con gli abiti bagnati che aderiscono e rivelano i corpi.
Questa notte tutte le isolane sono dee.
Donna Reparata con la borsa del pronto soccorso e don Saverio con l’olio dell’estrema unzione, non hanno, per fortuna, granché di lavoro da svolgere, tranne che suturare qualche lieve ferita, rincuorare qualcuno, distribuire coperte e cercare un alloggio per i naufraghi che le due locande, dio santo, due sole locande sono davvero insufficienti per gli afflussi sull’Isola.
«Bisognerà pensare alla costruzione di un albergo più moderno.» Pensa, a voce alta, donna Reparata.
«E di una cattedrale.» Le fa eco don Saverio,
Gli scampati al naufragio donano oggetti personali all’emporio che custodisce le reliquie dei naufraghi: ex voti da esporre in una futura, nuova ala.
«E perché non farne un museo?» Suggerisce un imprenditore.
Le imbarcazioni sono attraccate al molo nella formazione in cui sono giunte: le due grosse navi di fianco a proteggere quella più piccola.
I capitani sono andati alla locanda a festeggiare.
L’inglese Johnson della Queen Cristina, ed il giovane capitano italiano del mercantile Genova, sono propensi a prendersi una sbornia epocale che, in alcuni momenti dell’operazione, la paura c’è stata, e tanta.«Il vostro secondo non si unisce a noi? » chiede l’italiano al capitano Johnson che spiega con un sorriso: «Jericho Lloyd non è il mio secondo, è un fotografo del National Geographic, è qui per un reportage sull’Isola e per intervistare la regina nera dai capelli di sole.»
Ha bisogno di star sola.
Deve analizzare lucidamente ciò che è avvenuto, si rende conto di aver indotto a rischiare la vita ai capitani delle due navi sulla base di una semplice intuizione.
E con quanta supponenza ha imposto il suo punto di vista, pur senza averne alcun diritto!
Non si limita a pensarlo ma lo dice a voce alta, perché i pensieri, quando sono evocati, acquistano peso e volume.
«Hai fatto ciò che andava fatto. Non devi rammaricartene.»
Riconosce, nel buio, lo straniero che ha appoggiato il suo progetto e contribuito ad attuarlo.
« E’ stata una intuizione formidabile.» Lui afferma, convinto. « Alla spiaggia stanno festeggiando così come alla locanda. Domani ci saranno molti postumi da sbornia. » Ride.
Kalifa sente allentarsi la tensione perché lui l’ha alleggerita dal peso immane di quella responsabilità istintivamente assunta e che solo ora, che tutto è positivamente risolto, valuta nella sua pienezza.
«Grazie per avermi appoggiata, capitano.» Risponde grata, con un sorriso.
«Prego, ma non sono capitano. Mi chiamo Jericho Lloyd, fotografo del National Geographic, giunto fin qui per parlare delle meraviglie dell’Isola e di quelle della sua regina nera dai capelli di sole. E stanotte ho assistito ad un prodigio…d’intuito, certo, ma pur sempre prodigio. Allora, Kalifa, mi concederai l’onore di questa intervista? E poi quello ancora più grande d’invitarti a cena?» Le chiede con un sorriso accattivante.
Ci sono inviti ed incontri scritti nel destino, a cui non ci può sottrarre. O non ci si vuole sottrarre.
L’incontro con Jericho e il suo invito fanno parte di questi.
Kalifa lo sa: sorride e gli risponde si.