Il mare
Ricordo le estati al mare, a casa dei nonni, come la stagione della spensieratezza e della gioia. Ci andavo ogni estate con mia zia, che viveva con noi dopo essere rimasta sola avendo perso il marito e la figlia.
Noi abitavamo poco distante dai nonni, in un paesino dell’entroterra, così che la zia poteva, pur vivendo con noi, prendersi cura di loro, ogni sera.
In estate la zia andava a stare con i nonni al mare a cinque km di distanza da noi, mio padre lavorava in uno dei primi villaggi turistici costruiti a Capo Rizzuto, mia madre non se la sentiva di lasciarlo da solo a casa, rimaneva con lui ed era ben contenta di lasciarci andare con la zia al mare.
Questo è il periodo della mia infanzia di cui conservo i ricordi più cari. Buona parte di questi ricordi risiedono nel naso: rammento l’odore della terra bagnata dopo i temporali estivi e il profumo del bucato lasciato ad asciugare all’aperto sulle spighe di grano. Erano tanti i campi coltivati che si stendevano lungo la stretta stradina che conduceva al faro. Oggi purtroppo sono spariti, sostituiti da costruzioni disordinate. Ma allora si protendevano a destra e a sinistra ed emanavano un profumo diverso ad ogni stagione: di fiori freschi in primavera, di frutti in piena estate e di terra in autunno.
Per noi piccoli le escursioni verso il faro, distante più di un chilometro dal paese, erano una grande avventura! Quanta curiosità per quell’edificio così misterioso: cercavamo d’immaginare come fosse all’interno e ci sforzavamo di dare un volto ai fortunati abitanti.
Io rimanevo ore ad osservare il blu intenso del mio mare, appoggiata al parapetto di legno che cingeva l’orlo della falesia.
Di quell’azzurro conosco e amo tutte le sfumature; ognuna di esse mi parla. Che gioia il blu dei pomeriggi di sole. E che inquietudini mi angosciavano quando, prima di un temporale, il grigio frammisto al nero del cielo che in esso si specchiava, prendeva il posto del celeste a me caro.
Ma che meraviglia subito dopo la pioggia!
L’acqua si trasformava in un cristallo: limpida e trasparente. Vi si potevano scorgere branchi di pesciolini che come impazziti brancolavano di qui e di là e si distinguevano perfettamente le forme degli scogli verdastri d’alghe; io individuavo in essi figure di animali e tutto ciò che la fantasia mi suggeriva; come un pittore immaginavo di dipingere magici paesaggi con quella tavolozza incantevole.
Il mare mi svegliava al mattino presto con i suoi odori puliti ed io scivolavo di nascosto da sotto le lenzuola, aprivo silenziosamente la porta e correvo fino in spiaggia ad aspettare le piccole barche che tornavano dalla pesca.
Quando i pescatori svuotavano le reti, i pesci saltellavano dappertutto, cercando di sfuggire alle loro mani abili che li rimettevano nei secchi per venderli ai tanti acquirenti: che nel frattempo si erano radunati attorno alle barche: gente del posto ed i pochi turisti che in quel periodo cominciavano ad arrivare nella nostra zona.
La nonna di solito ci accompagnava in spiaggia di primo mattino; io e miei cugini facevamo lunghe corse sulla spiaggia, che si estendeva per almeno due chilometri, percorrendola tutta. Al ritorno cercavamo di capire a chi di noi appartenessero le impronte lasciate sulla sabbia indurita.
Quanti giochi spericolati! Come quello in cui ci lanciavamo da uno scoglio altissimo sulla sabbia piena di sassi appuntiti e spuntoni di rocce: credevamo d’essere indistruttibili solo perché recitavamo la nostra formula magica prima di buttarci. Di giorno milioni di stelle luccicavano dentro l’acqua e, quando il sole era alto nel cielo, bisognava distoglierne lo sguardo tanto la luce era accecante. Così mi sfuggivano molte delle numerose navi che lente, navigavano lungo la linea dell’orizzonte.
– Chissà dove andranno? – mi chiedevo quando ne intravedevo qualcuna e le invidiavo: loro avrebbero visto cosa c’era oltre l’orizzonte, erano favorite dalla sorte.
Spesso grossi battelli gettavano le ancore nella baia e noi ci munivamo di pinne e facevamo a gara a chi arrivava primo alla nave e una volta giunti giravamo attorno allo scafo sperando che qualcuno tra i passeggeri ci scorgesse e ci lasciasse salire per poter ammirare finalmente l’interno di quella meraviglia.
Al pomeriggio, nella siesta delle ore più calde, ascoltavamo a bocca aperta le meravigliose storie sui paladini che il nonno ci raccontava, ci immedesimavamo nei personaggi e sognavamo battaglie, amori impossibili, gloria e morte.
Dopo era il momento del lavoro: dovevamo meritarci il mare e gli altri divertimenti, quindi aiutavamo gli zii nell’orto, annaffiavamo i pomodori, le melanzane e le zucchine; fino a quando ogni pianta non era stata bagnata non potevamo muoverci da casa.
Poi finalmente di nuovo al mare.
Al tramonto un enorme disco rosso infuocava l’orizzonte, la giornata volgeva al termine e con lei i nostri giochi. A malincuore lasciavamo la spiaggia per tornare alle nostre case.
Di notte era la luna a riflettersi nell’acqua ed una interminabile striscia argentea splendeva abbagliante, accarezzando le coppiette che invano cercavano di celarsi e illuminando i gruppi di ragazzi che attorno ai falò strimpellavano canzoni senza tempo.
Alla fine della giornata ero esausta: mi lasciavo cullare dallo sciabordio delle onde sulla battigia, e mi addormentavo.
La domenica era il momento del ritrovo con tutti gli altri parenti della mamma. Ci spostavamo, verso spiagge più lontane e isolate, per tutto il giorno.
La mamma, che durante il fine settimana ci raggiungeva, si alzava presto al mattino per preparare da mangiare. Nel dormiveglia la sentivo sfaccendare in cucina: quei rumori erano rassicuranti perché voleva dire che si andava via anche quel giorno.
La cucina era piccola e aleggiava nell’aria, impregnandola, il profumo delle patate fritte con i peperoni; non li ho più mangiati così buoni, poi c’era la pasta al forno e le frittate con le verdure, avremmo mangiato freddo, ma con quel caldo ogni cosa sarebbe rimasta tiepida.
Quando ero pronta andavo a fare colazione da mia zia insieme ai mie cugini; lei dopo aver munto le mucche ci preparava delle squisite zuppe con il caffelatte ed il pane duro spezzettato in scodelle enormi, lo divoravamo in pochi minuti, quindi eravamo pronti per il nostro impegno mattutino: portare il latte ancora caldo alla gente del posto, in particolare alle signore che non potevano uscire di casa perché impedite dagli acciacchi o semplicemente perché troppo anziane per potersi muovere; loro per gratitudine ci regalavano quelle immagini sacre piccole che fungevano da spilla, le riponevamo in scatole di latta scambiandocele tra di noi in caso di doppioni. Ancora oggi le conservo nella stessa scatola oramai arrugginita
Tornavamo a casa per prepararci per la messa delle otto, la chiesetta era piccola e fresca, a noi bambini erano riservate le panche davanti così non ci saremmo distratti durante la funzione. Ma noi ci distraevamo, eccome! Non stavamo nella pelle all’idea che dopo poco saremmo stati al mare per un’interminabile giornata di giochi e libertà. Appena il prete ci congedava correvamo a casa, indossavamo velocemente il costume ed eravamo pronti per la nostra gita.
A quel punto cominciavano i litigi ed i piagnistei, per chi doveva salire in macchina ed in compagnia di chi; alla fine i grandi stufi ci accontentavano. Quello era il momento più atteso della giornata: facevamo dei pronostici su come sarebbe stato il tempo, e se il mare sarebbe stato abbastanza trasparente per permettere ai grandi di andare a pescare e a noi piccoli di arrampicarci sugli scogli per raccogliere le telline.
La prima cosa che facevamo una volta in spiaggia era cercare un posto all’ombra per l’anguria, che in genere veniva conservata dentro una buca scavata nell’acqua fresca del ruscello che scorreva fino in spiaggia e si congiungeva con il mare formando un piccolo laghetto sulla riva. I grandi, nel frattempo, montavano l’ombrellone che era quello che lo zio usava per i mercati; eravamo in tanti e le persone anziane avevano bisogno dell’ombra tutto il giorno.
A quel punto ci rendevamo conto che la calura era insopportabile e avevamo bisogno di bagnarci così correvamo in acqua facendo a gara per chi arrivava primo. Meravigliosi i giochi nell’acqua: tuffi, capriole, salti spericolati, poi era il tempo di andare sugli scogli, ci preparavamo con cura: i sacchetti, i coltelli con la punta, le ciabatte. Una volta pronti tutti insieme partivamo alla volta della scogliera. Eravamo svelti sugli scogli aguzzi, anche se spesso ci procuravamo ferite, a volte anche profonde, lasciavamo indietro gli adulti intenti al noioso compito della raccolta delle patelle. La nostra voglia di vedere cosa ci fosse oltre era più forte di ogni prudenza; ci sentivamo pionieri alla scoperta di terre sconosciute, e quando una caletta di sabbia intervallava la scogliera, i nostri occhi brillavano: quale meraviglia! Alla fine della giornata portavamo a casa i tesori raccolti: conchiglie, patelle, ricci che sarebbero finiti in un saporito sugo con gli spaghetti il giorno dopo.
A volte basta sentire un odore, un sapore, un’immagine per ritornare indietro, a momenti antichi e riprovare le stesse emozioni di quel tempo mai dimenticato.
C’erano dei pomeriggi veramente speciali, quando al mare ci portava nostro cugino Carmine, al suo ritorno dall’università. Lui studiava a Pisa con altre nostre cugine, avevano un appartamento vicino all’ Arno. Spesso ascoltavo i loro racconti sulle manifestazioni studentesche, loro parlavano di cambiamenti, di una scuola nuova, io non capivo molto, ma mi sarebbe piaciuto partecipare, essere parte vitale di quel movimento anche se ero piccola.
Quando lui era a casa durante l’estate, andare al mare era una festa, portavamo sempre il pane, quello tondo da un chilo ed il limone, non mancavano le forbici per aprire i ricci e i coltelli. Il nostro pomeriggio prevedeva un giro con una piccola barca azzurra; partecipavano alla gita anche i miei fratelli: uno più grande di me di sette anni ed uno più piccolo di sei. Il grande era impegnato con mio cugino, lo aiutava con la barca, il piccolo, dispettoso, ne combinava di tutti i colori.
Una volta sulla barca partivamo alla volta del posto migliore per la raccolta dei ricci,. Spesso eravamo così tanti che i bordi della barca erano allo stesso livello dell’acqua, nonostante la nostra incoscienza eravamo cauti e attenti e non accadde mai nulla di grave . Raggiunto il luogo giusto Carmine si immergeva con una cassetta di legno che teneva a galla legandola con una corda in vita; mio fratello assieme agli altri grandi controllava che ci comportassimo bene. Si tornava a riva quando la cassetta era piena. A quel punto, affamati aspettavamo, con le fette di pane e col limone in mano, che ci pulissero i ricci; era un’operazione a catena: c’era chi li apriva con la forbice, chi li puliva all’interno e finalmente arrivavano a noi piccoli, li divoravamo così in fretta che non ne sentivamo il sapore, come uccellini appena nati aprivamo le bocche per dire ancora e poi ancora.
Una volta finita la merenda, stanchi e sazi ci dedicavamo ai tranquilli giochi con la sabbia. Tutti tranne mio fratello che decideva proprio allora di entrare in acqua, nonostante il divieto di nostra madre, e cominciava a tormentarci con gli schizzi. Finita la pace finivamo tutti in acqua con lui e ne uscivamo solo dopo i numerosi richiami degli adulti; mio fratello invece non voleva proprio saperne di venir fuori, allora mia madre persa la pazienza si alzava il vestito ed entrava anche lei in acqua tentando inutilmente di prenderlo. Doveva intervenire l’altro mio cugino, Totò, perché di lui aveva timore e finalmente usciva e così si tornava a casa.
Il 5 di agosto era la festa della Santa patrona del paese
Si commemora il giorno del ritrovamento dell’icona a cui è stato dato il nome di Maria Greca. Probabilmente l’immagine giunse a riva in seguito all’affondamento di una nave, dovuto alle correnti, che in quel punto sono veramente forti.
Era il periodo della Magna Grecia, i traffici con la madre – patria erano veramente intensi e molte erano le navi che incappavano in quelle correnti traditrici e affondavano.
Dal giorno del ritrovamento tutti gli anni il quadro, precedentemente nascosto dietro al promontorio, quando diventa buio, viene riportato dalle barche dei pescatori a riva ed un fuoco funge da faro. È una festa molto suggestiva ed in quel periodo noi piccoli avevamo il compito di raccogliere la legna per accendere il falò che avrebbe guidato le barche a riva. Ogni legnetto che trovavamo era una conquista, tutti ci impegnavamo in questa ricerca!
Che bello vedere la pila finita. A quel punto potevamo riposarci e sdraiati sulla sabbia attendevamo l’arrivo delle barche.
Il mese di agosto era anche il periodo delle conserve, si raccoglievano gli ortaggi: zucchine, melanzane, peperoni… e per non sprecare nulla tutto quello che avanzava si riponeva sott’olio, un lavoro lungo e meticoloso. Quei vasetti di vetro sarebbero serviti durante l’inverno come contorno. Il lavoro più pesante era la conserva di pomodori, anche se per noi bambini era un divertimento. Tutte le cognate della mamma si riunivano e noi cugini eravamo in primo piano, ad ognuno di noi veniva affidato un compito che dovevamo svolgere con solerzia. Prima di tutto c’era la raccolta, poi dopo qualche giorno, una volta che il pomodoro era maturato, si passava alla preparazione delle conserve. Erano quintali di pomodoro da lavorare in fretta, perché si rischiava che marcisse, si lavorava per giorni interi da mattina e sera. La cosa più divertente era al termine del lavoro; dovevamo lavare tutto. Noi prendevamo la canna e cominciavamo a spruzzarci con l’acqua, dovevano intervenire le zie e la mamma per riportarci all’ordine.