Eravamo all’inizio dell’autunno, l’aria si era rinfrescata parecchio e si sentiva l’odore dell’inverno in arrivo.
Era il giorno libero di Laura, la mia figlia maggiore, avevamo un giro di commissioni da fare insieme e, come d’accordo, alle otto e trenta in punto, mi feci trovare davanti al mio portone.
Quando la vidi, capii subito che era una brutta mattinata.
Laura è una brava ragazza, sensibile, allegra, generosa ma, ha qualche difetto, come tutti d’altronde.
Quando ha sonno o è stanca, diventa un’altra persona: è intrattabile e irascibile come pochi.
Le lessi sul viso un concentrato di tutte e due le cose: sonno, stanchezza.
Conoscendola bene, come ogni mamma le proprie creature, ero consapevole di questo e mi sentii in colpa al primo sguardo.
Aveva il viso pallido, tirato, gli occhi pesti e… sull’umore sorvoliamo.
Inchiodò l’auto con una brusca frenata, aprì la portiera e mormorò un secco “ciao”.
«Vuoi che andiamo con la mia auto?», proposi.
«Guido io?», mi offrii.
«Ma, no, dai, sali, andiamo con questa», rispose spazientita.
Salii e chiusi la bocca, so perfettamente quando tira aria cattiva ed è meglio tacere.
Guidava come una pazza, a scatti, sterzava bruscamente, accelerava, frenava, rispondeva ai messaggi che le arrivavano sul cellulare ed io tremavo.
Era l’ora di punta del mattino e mi aggrappai alla maniglia della portiera, tesa come la corda di un violino.
Dopo qualche chilometro, ero già pentita di trovarmi lì:
«Non è stata un’idea felice, era meglio andare di pomeriggio o un altro giorno», e poi, «guarda questa come guida, è pazza! Attenta, ci manca solo che facciamo un incidente! Oddio, adesso investe quel pedone… no, è andata… per un pelo», pensavo preoccupata.
Immersa in questi lugubri pensieri, con il braccio artigliato alla maniglia, stavo seduta rigida come un manichino.
Entrando in città il traffico s’intensificò e l’atmosfera si fece ancora più tesa.
«Adesso mi piglia un infarto, per fortuna siamo quasi arrivate», stavo pensando, quando Laura, all’improvviso, ruppe il silenzio:
«Dove andiamo a parcheggiare?»
«Nel parcheggio grande a pagamento», risposi prontamente, «almeno siamo tranquille», aggiunsi sottovoce.
Riflettei:
«Ci manca solo lo stress di cercare un parcheggio, cara figlia, sei troppo nervosa questa mattina».
Attraversammo il centro intasato, c’immettemmo nella via che conduce al parcheggio e, quando imboccammo l’entrata dove si trovava la macchinetta automatica, invece di premere il pulsante per prendere il biglietto d’ingresso, Laura ignorò tutto, accelerò e, con un colpo secco, portò via la sbarra che normalmente impedisce il libero accesso.
Qualche secondo d’incredulo silenzio, poi mi misi le mani nei capelli e allibita le urlai:
«Laura, sei impazzita?»
«Che cosa accidenti fai, sei cieca, non hai visto la sbarra?»
«Dovevi premere il pulsante e prendere il biglietto … ».
Laura mi zittì fulminandomi con un’occhiata, la coda dietro di noi era ferma e tutti allungavano il collo incuriositi per vedere.
Lei scese dall’auto, spostò bruscamente la sbarra divelta, la gettò da un lato e, rivolta alla conducente dell’auto in coda dietro di noi che la stava fissando a bocca spalancata, le sparò, con voce alterata:
«Lei stia zitta!»
«Che cos’ha da guardare, non le è mai capitato di avere sonno il mattino?», incenerendola sul posto.
Poi rientrò in auto e si diresse sgommando verso i parcheggi.
Da parte mia pensai che fosse più prudente tacere, guardai di sottecchi mia figlia e la sua faccia cupa.
Sempre in silenzio scendemmo dall’auto, Laura si avviò verso l’ufficio del personale di servizio; io aspettai fuori.
Poco dopo, arrivò, mi rivolse un’occhiata truce ma non parlò.
Ci avviammo sotto i portici della via principale e dopo alcuni minuti, azzardai, con la voce più dolce e accattivante che riuscii a trovare:
«Vieni, andiamo a fare colazione, con lo stomaco pieno, forse, vedremo le cose dalla giusta prospettiva».
Camminavamo affiancate, in silenzio, come due estranee.
La condussi nel bar, dove faccio colazione ogni mattina:
«Mettiamoci qui fuori, è riscaldato e si sta comodi», dissi sedendomi a un tavolino seguita da una Laura, cupa e imbronciata.
Ordinammo e mangiammo mentre io la osservavo senza dare nell’occhio.
Dopo un cornetto e un caffè la vidi più rilassata.
Poi si voltò, mi guardò e, all’improvviso, scoppiammo contemporaneamente in una risata.
A stomaco pieno Laura è sicuramente un’altra persona e ha una risata sonora e coinvolgente.
L’atmosfera era cambiata e indossavamo un’aria di complicità come due vecchie amiche.
Avevo le lacrime agli occhi, lo stomaco mi doleva e non riuscivo più a fermare le risa.
«Mi sei piaciuta quando hai detto “lei che cosa ha da guardare?”, hai visto che faccia aveva?».
«E …, che cosa ti hanno detto in ufficio?»
«Che sei pazza?», chiesi con la voce strozzata, «che sei cieca o cos’altro?».
Laura mi fissò, si asciugò gli occhi pieni di lacrime e, quando riuscì a parlare, rispose:
«Mi hanno fatto pagare trentacinque euro per i danni e hanno detto che non sono la prima e non sarò l’ultima».
Quel giorno ricordo che riflettei:
«La mia famiglia ed io siamo unici, siamo dei pazzi scatenati, ma è proprio per questo che siamo simpatici!».
Oggi penso:«Su “pazzi scatenati” sono sicura che saranno tutti d’accordo, su “simpatici”, non lo so, ho qualche riserva».
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