Era spuntata da poco l’alba, e già Michele stava completando di caricare la macchina, mentre Rachel e i ragazzi erano ancora alle prese con la colazione.
«Che fretta c’è di partire?» chiese Rachel, ancora assonnata «abbiamo l’aereo alle 15 e da qui a Dublino ci sono poco più di duecento km».
Prima lascio questo posto e meglio è, avrebbe voluto rispondere Michele, ma per una volta si trattenne, perché era facile immaginare che la moglie non aspettasse altro. Per colmo d’ironia proprio il giorno in cui dovevano rientrare il cielo era sgombro di nuvole e un sole meraviglioso rendeva ancora più vivo il verde splendente dell’erba. Senza parlare l’uomo assicurò le cinghie che trattenevano le valigie sul portapacchi: mancavano solo le borse con gli indumenti da lavare, due sacchi di cotone che avrebbero trovato agevolmente posto nel portabagagli, una volta che gli altri componenti della famiglia si fossero decisi a togliersi di dosso i pigiami.

Soddisfatto del suo operato, Michele rientrò in casa e osservò Rachel dare la colazione ai bambini. Lo faceva con studiata lentezza, imburrando le fette di pane millimetro per millimetro, prima di spalmarle con la marmellata di more. Dov’era nascosta la marmellata? Quando si era alzato, due ore prima, non l’aveva trovata e aveva dovuto accontentarsi del solo burro. Poco male, in Italia sarebbe ritornato alla solita colazione a base di cappuccino e cornetto, forse meno buona ma sicuramente…. Sicuramente cosa? Osservò i bambini mangiare con avidità e sentì il suo stomaco che brontolava.
Le fette di pane però erano contate, e Rachel aveva già mangiato le sue. Pazienza.
Restò qualche istante davanti alla tavola, senza sapere cosa dire, finché non riuscì più a resistere.
«Ne avete ancora per molto?» esclamò.
Rachel sollevò su di lui uno sguardo freddo come il ghiaccio.
«Cosa ci facciamo a Dublino alle dieci del mattino?» chiese.
Il tappo era saltato.
«Be’, intanto ci leviamo di qui» si sentì dire.
«Lo so che non aspetti altro! Stai tranquillo che non ti chiederò mai più di venire nei posti dove sono cresciuta!».
Questo implicava ovvie ritorsioni per le prossime vacanze in Sicilia.
«Quando siete pronti fatemelo sapere!» disse, uscendo e sbattendo la porta.

Una volta fuori attraversò il tratto di terreno ghiaioso che costituiva l’aia e raggiunse la macchina. Si appoggiò con entrambe le mani alla portiera, respirando forte per far sbollire la rabbia, poi l’aprì e si sedette al posto del conducente, allungandosi sul sedile.
Doveva essersi addormentato, perché sentì sbattere la porta e vide sua moglie e i ragazzi arrivare alla macchina carichi dei bagagli che erano rimasti dentro. Anche il piccolo Luigi stava trascinando una valigia quasi più grossa di lui. Michele scese rapidamente, ma era ormai troppo tardi.
«Grazie per l’aiuto!» sibilò Rachel aprendo il portabagagli. I ragazzi, evidentemente ben addestrati dalla madre, lo guardavano con espressioni severe. Michele non sapeva se ridere o piangere, ma riuscì a non fare né l’una né l’altra cosa, limitandosi a prendere dalle mani dei figli i sacchi restanti e a stivarli nella macchina. Alla fine tutto fu pronto. Accese il motore, ingranò la marcia e lentamente la macchina lasciò lo chalet per portarsi sulla strada principale. Come furono arrivati alla fine del viottolo privato Michele si fermò un istante: non era mai riuscito ad abitarsi alla guida a sinistra che usava in Irlanda, così mise in folle e guardò due volte a destra e a sinistra prima di decidersi ad immettersi sulla N4.
Finalmente si decise, ingranò la marcia e rilasciò la frizione per superare il piccolo fosso che serviva a raccogliere le acque. Con un cigolio la macchina si mosse di qualche centimetro in avanti, poi il motore salì pazzamente di giri e un forte odore di bruciato si diffuse nell’abitacolo.
«Cristo!» esclamò Michele, incredulo.
«Cosa è successo?» fece Rachel, dimenticando per un momento di essere offesa.
«La frizione, è bruciata!».
I ragazzi guardavano i genitori senza capire.
«E ora?» chiese Rachel.
Michele non rispose, sbloccò il cofano, scese e l’aprì, per scoprire che lì l’odore era ancora più forte.
«Non lo so» disse, ritornando dalla moglie «chiamerò l’assistenza stradale».
«E l’aereo? Abbiamo il volo prenotato e…».
«Non posso fare miracoli!» scattò lui.
Rachel si voltò verso i figli: «Tranquilli, ragazzi, non è successo niente: adesso sistemiamo tutto e ripartiamo».

Sistemiamo tutto un accidente!  pensò Michele, ma poi rifletté che era inutile fare polemiche: in un modo o nell’altro dovevano levarsi da lì. Chiamare un taxi… ma quanto ci avrebbe messo?
Il rumore sferragliante di un vecchio diesel lo riscosse dai suoi pensieri. Un grosso furgone che sembrava uscito direttamente dagli anni trenta si era fermato presso di loro.
Finalmente un colpo di fortuna! Si disse Michele, portandosi dalla parte del guidatore.
«Buongiorno. Grazie per essersi fermato» disse, nel suo inglese approssimativo «dovremmo fare ritorno a Dublino, ma siamo rimasti in panne e…».
Si bloccò di colpo.
«Ah, ma siete voi? Che bella sorpresa!» disse il conducente del furgone.
William!
Michele esitò alcuni istanti, ma nel frattempo la moglie li aveva raggiunti.
«William! Cosa ci fa qui?».
Lui sorrise e indicò la strada: «Devo andare a Dublino a prendere mia moglie, arriva con l’aereo delle 13.
«Deve essere lo stesso che dobbiamo prendere per tornare a casa» disse Rachel «potrebbe darci un passaggio? La nostra macchina si è guastata e dobbiamo raggiungere l’aeroporto».
«Certamente! Dietro ho tutto il posto che volete, e questo furgone è omologato per sette persone» disse, indicando le due file di sedili dietro di lui.
Era un furgone promiscuo, di quelli che le imprese usavano per trasportare piccole squadre di operai al lavoro.
«Ci salva la vita!» disse Rachel, entusiasta «ma… la nostra vettura?».
«Per quello non c’è problema» la rassicurò lui «consegnate le chiavi all’agenzia all’aeroporto, ci penseranno loro a farla recuperare, sono assicurati per questo».
«Be’, allora grazie» intervenne Michele, tiro giù i bagagli».
«Aspetti, l’aiuto io» si offrì William, spegnendo il motore e scendendo dal mezzo.
Con l’assistenza dell’iralndese e di Rachel, che era ritornata sorridente e piena di voglia di collaborare, i bagagli furono spostati in pochi minuti, poi i due uomini spinsero la macchina di lato perché non impedisse il passaggio e tutti presero posto sul furgone.
William girò la chiave, e con grande sollievo di Michele che si era sentito morire quando l’aveva spento, il motore si mise in moto.
«Questa non va veloce ma arriva dappertutto» fece William «non immaginate neanche quanti anni abbia!».
Forse me li immagino, pensò Michele, speriamo bene!
«Non vi preoccupate, arriveremo in tempo!» li rassicurò William, vedendo i volti tesi «come va ragazzi?».
«Bene…» rispose Robert con un filo di voce.
«Cosa ne dite se vi racconto una fiaba durante il viaggio?».
Il sorriso ritornò sul volto dei due bambini.
«Però oggi, visto che è giorno e c’è un bel sole, voglio raccontarvi una vera favola irlandese: siete pronti?» chiese, lanciando un ‘occhiata a Rachel.
«Sì. Sì!» fecero i ragazzi, anticipando qualunque cosa intendessero dire i due genitori.
«Dunque…» cominciò William, riportando lo sguardo sulla strada…

Verso il principio del secolo scorso viveva nei pressi del villaggio di Kinnegad un ricco fattore di nome Bryan Costigan. Quest’uomo possedeva un’estesa fattoria con una gran quantità di mucche da latte e ogni anno ricavava un bel po’ di denaro dalla vendita del latte e del burro. La fertilità delle terre da pascolo di quella zona era proverbiale e grazie a essa le mucche di Bryan erano le più belle e le più generose del paese, il suo latte e il suo burro i più ricchi e gustosi e su tutti i mercati in cui erano messi in vendita venivano acquistati al prezzo più alto.
Le cose seguitavano a prosperare per Bryan Costigan, quando, un brutto giorno, si accorse improvvisamente che le bestie perdevano il loro aspetto florido e la fattoria non dava quasi più profitti. Dapprima Bryan attribuì questo cambiamento al tempo o a una qualche causa simile, ma senza soffrire in apparenza di alcun disturbo le mucche deperivano di giorno in giorno ed erano capaci a malapena di trascinarsi per il pascolo: molte, al posto del latte, non davano altro che sangue, e la scarsa quantità di latte che qualcuna continuava a produrre era così amara che non la bevevano neppure i maiali, mentre il burro che se ne ricavava era di una qualità tanto cattiva e puzzava in modo così disgustoso che perfino i cani si rifiutavano di mangiarlo.

Disperato, Bryan si rivolse a tutti i ciarlatani e a tutte le fattucchiere del paese in cerca di un rimedio, ma invano. Molti di questi dichiararono che la loro scienza era inefficace di fronte alla misteriosa malattia di cui soffrivano le sue bestie, mentre altri, pur non avendo nessuna difficoltà nel farla risalire a una fonte soprannaturale, affermavano di non avere alcuna autorità in materia, poiché la magia che con la sua influenza distruggeva la proprietà di Bryan era tanto potente che solamente l’intervento speciale della Divina Provvidenza avrebbe potuto dissolverla, e niente di meno.
Il povero fattore era quasi fuori di sé. vedeva la rovina fissarlo in volto; eppure cosa doveva fare? Vendere le sue bestie e comprarne delle altre? No, questo era fuori discussione, perché avevano un aspetto così miserevole e scarno che nessuno le avrebbe prese nemmeno in regalo e d’altra parte non era neanche possibile venderle a un macellaio, dato che la carne di una che egli aveva ammazzato per la sua famiglia era nera come un tizzone e puzzava come una carogna putrefatta.
Il poveretto era perciò del tutto disorientato. Non sapeva cosa fare, divenne cupo e come inebetito. Di notte non riusciva più a prender sonno e passava l’intera giornata a vagabondare per i campi come un pazzo, fra le sue bestie «stregate».

Le cose andavano di male in peggio quando, un pomeriggio molto afoso, verso la fine di luglio, la moglie di Bryan Costigan era seduta alla porta intenta a filare, in uno stato d’animo assai depresso e turbato. Per caso, lo sguardo le andò lungo lo stretto sentiero erboso che conduceva dalla strada maestra alla casa: scorse così una vecchina scalza, avvolta in un vecchio mantello scarlatto, che veniva avanti lentamente, aiutandosi con una gruccia che reggeva in una mano e con una canna, o un bastone da passeggio, che teneva nell’altra. La moglie del fattore si rallegrò nel notare la forestiera dall’aspetto così insolito; e le rivolse un «benvenuto» con un calore che faceva chiaramente intendere come le labbra esprimessero nient’altro che i sentimenti genuini del suo cuore.
«Dio benedica questa casa e tutto quello che le appartiene» disse la sconosciuta entrando.
«Dio vi salvi, e siate la benvenuta chiunque voi siate» rispose la signora Costigan.

La moglie del fattore corse a sistemare una sedia presso il fuoco per la sconosciuta, ma questa rifiutò e si accoccolò per terra vicino al posto dove era stata seduta a filare la signora Costigan. Quest’ultima poté ora esaminare con tutta tranquillità e in ogni particolare la figura della vecchina. Appariva carica d’anni: l’espressione del volto era estremamente sgradevole e ripugnante, la pelle era ruvida e molto scura, come per effetto di una lunga esposizione al sole, la fronte era bassa, stretta e solcata da mille rughe, i lunghi capelli grigi ricadevano in ciocche arruffate da sotto una papalina di lino bianco, gli occhi erano velati, iniettati di sangue e messi per storto nelle orbite e la voce era roca, tremula e a volte quasi impercettibile.
Accovacciatasi sul pavimento essa esaminò la casa con sguardo attento e indagatore. Scrutò avidamente ogni angolo con tale intensità, quasi avesse avuto il dono di vedere attraverso le profondità della terra, mentre la signora Costigan continuava a seguire i suoi movimenti con un misto di curiosità, rispetto e piacere.
«Signora» disse la vecchia rompendo infine il silenzio «ho la gola secca per il gran caldo, potete darmi qualcosa da bere?».
«Ohimè!» rispose la moglie del fattore «non ho da offrirvi nient’altro che acqua».
«Non siete la padrona delle bestie che vedo laggiù?» disse la vecchia con un gesto e un tono di voce che indicavano chiaramente come già la cosa le fosse nota.
La signora Costigan rispose di sì, e in breve le raccontò ogni particolare sulla faccenda, mentre la vecchia rimaneva sempre silenziosa, scuotendo però ripetutamente la testa grigia, non smettendo di esplorare con lo sguardo la casa con aria di importanza e sufficienza.

Quando la signora Costigan ebbe finito, la vecchia rimase un momento come assorta in profonde riflessioni, poi disse:
«Avete in casa un po’ di latte?».
«Sì, ne ho» rispose l’altra.
«Mostratemene un poco».
La signora Costigan ne riempì una brocca da un recipiente e la porse alla vecchia. Questa lo annusò, ne mise un po’ in bocca, e sputò sul pavimento quello che aveva assaggiato.
«Dov’è vostro marito?» chiese.
«Fuori, nei campi» fu la risposta.
«Devo vederlo».
Un ragazzo fu mandato a chiamare Bryan e poco dopo egli comparve.
«Amico» disse la sconosciuta, «vostra moglie mi dice che le vostre bestie vi danno preoccupazioni in questo periodo».
«Vi ha detto la verità» rispose Bryan.
«E perché non avete cercato un rimedio?».
«Un rimedio!»- le fece eco l’uomo, «ma cara donna, ho cercato un rimedio fino a ridurmi il cuore a pezzi, e tutto inutilmente: quelle peggiorano di giorno in giorno».
«Cosa mi darete se ve le guarisco?».
«Tutto quello che è in nostro potere» risposero Bryan e la moglie, entrambi con voce sollevata e d’un sol fiato.
«Vi chiedo soltanto una moneta d’argento da sei penny» disse «e che siate disposti a fare tutto quello che io vi dirò».
Il fattore e la moglie si stupirono di una richiesta tanto moderata. Le offrirono una grossa somma di denaro.
«No» disse «non voglio il vostro denaro, non sono un’imbrogliona, e non prenderei neanche sei penny se non fosse che senza avere in mano un po’ del vostro argento non posso fare nulla».
Le fu subito data la moneta da sei penny e sia Bryan che la moglie, che ormai cominciavano a vedere nella vecchia strega il loro angelo custode, promisero la più cieca obbedienza a tutti i suoi ordini.

La vecchia si sfilò da sotto la papalina un nastro, una fascia per i capelli di seta nera che le circondava il capo, e la diede a Bryan dicendo:
«Ora vai, e porta nel cortile la prima vacca che toccherai con questo nastro, ma fai attenzione a non toccare la seconda e a non dire una parola finché non sarai di ritorno; bada anche a non far sfiorare il nastro per terra altrimenti tutto andrà a monte».
Bryan prese il nastro magico e presto fu di ritorno conducendo davanti a sé una mucca rossa. La vecchia strega uscì e, avvicinatasi alla vacca, cominciò a strapparle i peli dalla coda, cantando dei versi in irlandese, intonando una melodia bassa, selvaggia e sconnessa. La mucca appariva infastidita e irrequieta, ma la vecchia continuò ugualmente il suo canto misterioso fino a quando non ebbe estratto il nono pelo. Poi ordinò che la mucca fosse riportata al pascolo e rientrò in casa.
«Vai ora» disse alla donna «e portami un po’ di latte di tutte le mucche che possiedi».
La donna andò e fu presto di ritorno con un grosso secchio pieno di una orribile mistura di latte, sangue e sostanza in decomposizione. La vecchia mise tutto nella zangola e sistemò ogni cosa per la preparazione del burro.
«Ora» disse «dovete sbattere il latte tutti e due: chiudete bene la porta e le finestre e lasciate soltanto la luce del fuoco. Non aprite la bocca finché non ve lo dico io. Se seguirete le mie istruzioni prima che il sole sia tramontato scopriremo la creatura diabolica che rapina il vostro pascolo».
Bryan sprangò porte e finestre e cominciò a sbattere il latte. La vecchia fattucchiera sedette vicino al fuoco scoppiettante che era stato acceso apposta per l’occasione e cominciò a cantare la stessa strana canzone che aveva cantato strappando i peli della mucca, quindio un po’ gettò uno dei nove peli nel fuoco, sempre intonando i suoi versi misteriosi e allo stesso tempo seguendo con la massima attenzione il procedere della stregoneria.
A questo punto si udì un alto grido, come di una donna in preda all’angoscia, farsi sempre più vicino alla casa; la vecchia strega interruppe i suoi incantesimi e ascoltò attentamente. La voce disperata si avvicinava alla porta.
«Aprite la porta, presto» gridò la maga.
Bryan tolse la sbarra, e tutti e tre si precipitarono nel cortile: lì udirono lo stesso grido in fondo al sentiero, ma non riuscirono a vedere nulla.
«È finita» disse forte la vecchia strega, «qualcosa non ha funzionato e per ora il nostro incantesimo è senza effetto».
Se ne stavano tornando con la coda fra le gambe quando, sul punto di entrare in casa, la vecchia abbassò gli occhi e scorse, inchiodato sulla soglia, un pezzo di ferro di cavallo.
«Ecco qui, ho trovato, non c’è da stupirsi che il nostro incantesimo sia fallito» strillò «chi gridava là fuori è la sciagurata che ha stregato le vostre bestie; io l’ho attratta verso la casa, ma non è riuscita a venire fino alla porta per via di questo ferro di cavallo. Toglietelo immediatamente e tenteremo di nuovo la sorte».
Bryan rimosse il ferro di cavallo dalla soglia e secondo le istruzioni della vecchia strega lo mise per terra sotto la zangola, dopo averlo reso incandescente nel fuoco.

Ripeterono un’altra volta l’operazione:. Bryan e sua moglie ricominciarono a sbattere il latte e la strega a cantare i suoi versi strani, gettando i peli di vacca nel fuoco finché non li ebbe finiti quasi tutti. I suoi tratti cominciavano ora a mostrare segni evidenti di irritazione e disappunto. Si fece assai pallida, serrava i denti, le mani le tremavano, e quando gettò il nono e ultimo pelo nel fuoco, la sua persona aveva più l’aspetto di un demone femminile che quello di un essere umano.
Ancora una volta si udì quel grido, e si vide una vecchia dai capelli rossi che si avvicinava con passo rapido alla casa.
«Oh, oh!» urlò la fattucchiera, «sapevo che sarebbe andata così; il mio sortilegio è riuscito; le mie aspettative si sono realizzate; eccola che viene, la sciagurata che vi ha rovinati».
«E adesso cosa dobbiamo fare?» chiese Bryan.
«Non ditele niente» rispose la strega, «datele tutto quello che vuole e lasciate a me il resto».
La donna avanzava lanciando acute grida e Bryan uscì ad accoglierla. Era una vicina, e disse che una delle sue mucche più belle stava annegando in uno stagno, che a casa non c’era nessuno all’infuori di lei e implorò Bryan di andare a salvare la sua mucca da morte certa.
Bryan la accompagnò senza un attimo d’esitazione e dopo aver tratta in salvo la mucca in pericolo in un quarto d’ora fu nuovamente a casa.

Era il tramonto e la signora Costigan si accinse a preparare la cena. Durante il pasto ritornarono agli strani avvenimenti della giornata. La vecchia strega emise più d’una risata diabolica per il successo dei suoi incantesimi e domandò chi fosse la donna che avevano scoperto in un modo tanto singolare.
Bryan le fornì tutti i particolari. Era la moglie di un fattore vicino; si chiamava Rachel Higgins e da tempo la si sospettava d’essere in stretti rapporti con lo spirito delle tenebre. Aveva cinque o sei mucche; ma i suoi ben informati vicini avevano notato che ogni anno vendeva più burro lei di quanto ne vendevano le mogli degli altri fattori, che ne avevano venti. Fin da quando il suo bestiame aveva cominciato a deperire, Bryan aveva sospettato che la malfattrice fosse lei, ma, siccome non aveva nessuna prova, era stato zitto.
«Bene» disse la vecchia strega con un sorriso truce, «non basta aver scoperto la colpevole, è tutto inutile se non prendiamo provvedimenti che la puniscano per il passato e che impediscano le sue razzie in futuro».
«E come ci riusciremo?» chiese Bryan.
«Questa sera, appena arriva la mezzanotte, andate al pascolo portando con voi un paio di cani veloci; nascondetevi in qualche posto da cui possiate controllare il bestiame e tenetelo d’occhio. Se vedete che qualcosa, uomo o bestia, si avvicina alle mucche, aizzate i cani, e se possibile fate che azzannino a sangue dell’intruso: a questo punto tutto sarà compiuto. Se nessuno si avvicina prima dell’alba, potete ritornare e allora tenteremo qualcosa d’altro».

Non distante viveva il bovaro di un signorotto della zona. Era un giovanotto forte e coraggioso e teneva sempre un paio di feroci bulldog. Bryan gli si rivolse per avere aiuto e questi acconsentì di buon grado ad accompagnarlo, propose inoltre di prendere un paio dei migliori levrieri del padrone, poiché i suoi cani, pur essendo aggressivi e assetati di sangue, non erano tra i più veloci. Promise a Bryan di trovarsi con lui prima di mezzanotte e si lasciarono.
Quella sera Bryan non tentò neppure di dormire: rimase seduto ansiosamente ad aspettare la mezzanotte. L’ora arrivò infine e il suo amico, il bovaro, fedele alla promessa fatta, comparve al momento stabilito. La strega diede loro qualche altro consiglio e partirono. Giunti al pascolo si consultarono sul posto migliore da scegliere come nascondiglio. Si decisero per una piccola macchia di felci, situata all’estremità del campo, vicino al fossato di confine, che era fittamente disseminata di grandi, vecchi cespugli di biancospino. Qui si accovacciarono e fecero stendere i cani accanto a loro, aspettando con impazienza che comparisse la misteriosa visitatrice.

Bryan e l’amico rimasero così per un bel po’, nervosi ed eccitati, ma ancora niente si avvicinava, e chiari segni indicavano che il mattino si faceva prossimo. Cominciavano a spazientirsi, e progettavano di far ritorno a casa, quando, improvvisamente, sentirono dietro di loro un rumore affrettato, come prodotto da qualcosa che cercasse di aprirsi un varco a forza attraverso la fitta siepe alle loro spalle. Guardarono in quella direzione, e immaginate il loro stupore nello scorgere una grossa lepre nell’attimo in cui balzava fuori dal fossato e saltava sul terreno asciutto proprio vicino a loro. Adesso avevano la certezza che era questa la cosa che avevano atteso con tanta impazienza, ed erano decisi a osservare attentamente i suoi movimenti. Arrivata sul campo, la lepre rimase immobile per alcuni istanti, guardandosi attorno con sguardo acuto. Poi cominciò a balzare e saltare come per gioco, ora avanzando a passo veloce verso le mucche, ora ritirandosi precipitosamente, facendosi tuttavia sempre più vicina a ogni finta. Infine raggiunse la prima mucca e la succhiò per un momento, passò poi alla seguente, e quindi, una dopo l’altra, succhiò ogni mucca del campo – e per tutto il tempo le mucche muggivano forte e apparivano terribilmente spaventate e agitate.

Dal momento in cui la lepre aveva cominciato a succhiare la prima mucca Bryan a stento era stato trattenuto dall’attaccarla; ma il suo più sagace compagno gli suggerì che sarebbe stato meglio aspettare fino a quando non avesse terminato, poiché allora sarebbe stata appesantita e tentare la fuga le sarebbe risultato più difficile. Finito che ebbe di succhiare tutte le mucche, la lepre si ritrovò con la pancia enormemente gonfia e si apprestò ad allontanarsi lentamente e con evidente difficoltà. Avanzò verso la siepe dalla quale era entrata e quando arrivò alla macchia dove stavano rannicchiati i suoi nemici questi balzarono in piedi con un grido selvaggio e le aizzarono contro i cani.
La lepre scappò via veloce, facendo schizzar fuori dalla bocca e dalle narici il latte che aveva succhiato, mentre i cani la inseguivano rapidi. Nella grigia e fioca luce del mattino apparve a breve distanza la capanna di Rachel Higgins, ed era chiaro che la bestia era intenzionata a raggiungerla anche se aveva preso un gran giro per i campi dietro la casa. Bryan e il suo compagno, comunque, avevano un loro piano: andarono verso la capanna per la via più breve e vi erano appena arrivati che la lepre spuntò, ansante e quasi sfinita, con i cani alle calcagna. Corse attorno alla casa, evidentemente confusa e contrariata dalla presenza degli uomini, ma infine si diresse alla porta. C’era, in basso, una piccola apertura semicircolare simile a quelle praticate nelle porte dei pollai per permettere l’entrata e l’uscita di polli e galline. Per raggiungere questo foro la lepre ora fece un ultimo sforzo disperato ed era riuscita a farvi passare la testa e le spalle, quando il primo cane fece un balzo e le azzannò violentemente una coscia. La bestia lanciò un grido acuto e penetrante e lottò disperatamente per liberarsi dalla presa. Ci riuscì infine, ma non senza aver lasciato tra i denti del cane un pezzo di natica. A questo punto gli uomini spalancarono la porta: un vivido fuoco di torba ardeva nel camino e il pavimento era inondato di sangue. Non si vedeva però nessuna lepre, e gli uomini si convinsero più che mai che doveva trattarsi della vecchia Rachel che aveva, con l’aiuto di qualche demone, assunto la forma della lepre: erano adesso ben decisi a scovarla, se era ancora su questa terra. Entrarono nella camera da letto e udirono un lamento soffocato che sembrava venire da qualcuno in punto di morte. Andarono verso l’angolo della stanza dal quale arrivavano i gemiti e là, in mezzo a una fascina di giunchi tagliati di fresco, videro il corpo di Rachel Higgins che si contorceva in preda agli spasimi più atroci, quasi annegato in una pozza di sangue. Gli uomini erano sbigottiti: si rivolsero alla disgraziata vecchia, ma questa non poté o non volle rispondere. La ferita sanguinava sempre abbondantemente: le sue sofferenze sembravano aumentare ed era chiaro che stava morendo. I famigliari, svegliatisi, si radunarono attorno a lei con grida e lamenti; la vecchia sembrava non notarli neppure, continuava a peggiorare e le sue urla acute echeggiavano paurosamente nelle orecchie dei presenti. Infine spirò, e il suo cadavere si presentò in un aspetto terribile ancor prima che lo spirito l’avesse lasciato del tutto.

Bryan e l’amico tornarono a casa. La vecchia megera era già venuta a conoscenza della sorte di Rachel Higgins, ma non si capiva in quale modo soprannaturale avesse avuto la notizia. Era esultante per l’esito delle sue pratiche misteriose. Bryan insistette molto perché accettasse qualche ricompensa per i suoi servizi, ma essa rifiutò energicamente ogni proposta. Rimase ancora alcuni giorni in casa sua, poi prese congedo e partì, nessuno seppe per dove.
Le spoglie della vecchia Rachel furono sotterrate quella notte nel vicino cimitero. La sua sorte divenne presto nota a tutti e la sua famiglia, vergognandosi di rimanere nel villaggio nativo, vendette la proprietà e abbandonò per sempre il paese. La storia è comunque ancora viva nella memoria degli abitanti della zona e- si racconta – nella grigia foschia della luce estiva, si può sovente scorgere il fantasma di Rachel Higgins che, sotto forma di una lepre, salta qua e là sui suoi territori di caccia prediletti e rimpianti.

William guidava lentamente, con prudenza, ma la storia era stata lunga e Dublino era ormai vicina. Il tempo si era girato decisamente al bello, e il caldo sole estivo faceva evaporare l’umidità di cui era intriso il terreno. Michele, che era seduto davanti, vide la nebbia venirgli incontro.
«Non è possibile che in questo posto ci sia la nebbia anche col sole di mezzogiorno!» esclamò, scuotendo la testa.
«Più che nebbia è foschia di caldo» lo corresse William, senza staccare gli occhi dalla strada.
Un cartello comparve per un attimo sulla sinistra e sparì subito, inghiottito dalla nebbia.
«Cosa era?» chiese Rachel.
«Kinnegad» rispose William.
«Vuol dire che è proprio il paese della iaba?».
Il guidatore non rispose, ma fece un cenno impercettibile verso la sua sinistra.
Rachel aguzzò gli occhi: quella che saltellava nell’erba, apparendo e sparendo tra gli sbuffi di nuvole, non era una lepre?

All’aeroporto di Dublino William li accompagnò fino alla sede della Hertz. Michele andò a consegnare le chiavi, mentre Rachel faceva scendere i bambini.
«Non so come ringraziarla per il passaggio e la sua compagnia» disse, stringendo la mano a William.
«Non c’è di che signora» rispose lui «non capita spesso di trovare qualcuno ancora innamorato di queste terra».
«Grazie anche per le sue fiabe: sono… bellissime».
«Sono io che devo ringraziare lei e i suoi figli: le fiabe vivono finché trovano qualcuno che le ascolta».
I bambini si guardavano in giro, osservando gli aerei che rullavano sulla pista. Rachel era imbarazzata, il fugace contatto che aveva avuto con quell’uomo il giorno prima l’aveva scombussolata, facendole di colpo ritornare in mente i suoi ricordi di bambina.
D’improvviso si rende conto che la sua mano era ancora tra le sue mani, e la ritirò con un debole sorriso prima che facesse ritorno il marito.

Nel frattempo Michele era ritornato con un carrello per i bagagli e i due uomini caricarono tutto in pochi minuti. Come ebbero finito William ritornò al posto di guida e abbassò il finestrino per salutare.
Rachel gli si avvicino:
«Allora addio, William» disse.
Lui corrugò un attimo la fronte.
«Arrivederci, forse, non diciamoci mai addio… Il mondo è pieno di cose inaspettate».
Come attratta da una calamita, Rachel fissò lo sguardo negli occhi chiari dell’uomo, e per un solo, brevissimo istante, ogni cosa le divenne chiara.
«William Butler…» mormorò con un filo di voce.
Lui sorrise e schiacciò l’occhio.