Una signora dai toni gentili e dall’accento straniero mi contattò inaspettatamente in una calda sera settembrina chiedendomi se fossi stata libera il mercoledì successivo alle ore 17; inizialmente fui un pò annoiata perché pensavo si trattasse del solito stratagemma per rifilarti qualcosa di indispensabilmente inutile ma mi si drizzarono le orecchie quando la signora mi diede appuntamento in un albergo di una città vicina perché la signora Severina Caccamo aveva piacere ad incontrarmi. Cercai di avere dettagli in più ma non ci fu verso: si trattava di prendere o lasciare così, a scatola chiusa, e non avendo nulla da perdere se non qualche ora della mia vita piuttosto inoperosa in quei frangenti, decisi di recarmi all’appuntamento.

Il cuore mi batteva forte, non avevo saputo più nulla di lei e non sapevo cosa aspettarmi. Sapevo che l’orco viveva in un’altra città, si era sposato con una poveretta con la quale aveva generato un paio di marmocchi (che spero vivamente non assomiglino al padre) ma, pur vivendo nello stesso paese, non avevo altre notizie attendibili su Rinetta.

Chi mi sarei trovata di fronte?? Non avevo la più pallida idea. Mi chiedevo se avrei incontrato una donna anonima e frustrata oppure se Rinetta avesse iniziato l’impervio cammino verso una condizione di visibilità nel nostro mondo di umani. Entrai nella hall dell’albergo col cuore in gola ma non c’era nessuno se non una donna bella, molto glamour ed elegante; mi colpì perché sul braccio destro aveva tatuata evidente una splendida rosa scarlatta, le cui ramificazioni si intrecciavano sino alle ultime falangi conferendo a quelle mani, già di per se molto curate, un tocco di raffinata e ricercata eleganza. Io e la signora ci sbirciammo di sottecchi, forse perché vicendevolmente aspettavamo qualcuno dall’aspetto imprecisato e guardavamo in giro con circospezione… ma, non appena le voltai le spalle la signora mi chiamò per nome facendomi sobbalzare. Quel “Ciao Cristina”, il cui fragore inaspettato era paragonabile a quello di una petardo impazzito, mi lasciò di stucco e, pur individuando nel tono di voce e in alcuni tratti somatici un’aria vagamente familiare, da sola tra la folla non l’avrei mai riconosciuta. Solo quando le si inumidirono gli occhi riconobbi quello sguardo e ci avvinghiammo l’una all’altra con la voglia di chi si vuole bene e con la  fame di chi ha perso troppi abbracci affettuosi. La signora aveva rinchiuso Rinetta in una scatola stipata in un angolo buio nella soffitta della sua coscienza ed aveva cambiato identità, volto, nome. La mia Rinetta si è trasformata in Vera Mc Bride, cardiochirurgo pediatra al London National Hospital. Ci sedemmo comode continuando a fissarci nell’anima attraverso gli occhi ancora umidi e lei iniziò a raccontarmi la sua storia a partire dal momento in cui ci eravamo perse nel cammino della vita.

Dopo il diploma ovviamente l’orco le proibì di frequentare l’università ma, con la scusa di aiutare economicamente sua madre Rinetta riuscì a conquistare uno straccio di lavoro in un negozio. Così pian piano iniziò ad assaporare la vita e la gente. In quelle poche ore in cui si trovava senza il controllo dell’orco poteva essere veramente se stessa e scoprire  di avere un potenziale da sfruttare a livello fisico, intellettuale ed emotivo. Così piano piano crebbe in lei la consapevolezza di doversi liberare di lui a tutti i costi.

Quando lo lasciò venne brutalmente insultata, derisa, pregata, picchiata. La seguiva dappertutto, urlandole dietro per strada, a lavoro, sotto casa, incurante della gente che si fermava ad assistere alla sue scenate. Non riusciva a toglierselo di torno ma teneva duro; l’orco inscenò persino un finto suicidio, un incidente “spettacolo” con la macchina (sempre attento a non farsi troppo male), così come aveva messo in piedi la squallida scenetta dell’eroinomane. Ma quella volta gli  andò male; Rinetta non era niente, non sapeva niente, ma aveva una certezza: non voleva tornare ad essere la sua vittima.

Una sera mentre stava tornando a casa dopo il lavoro l’orco le tese un’imboscata. Non si limitò alle botte, ma volle marchiarla a vita, come si fa con gli animali, per rendere evidente come lei gli appartenesse, per farle capire che lei sarebbe stata sua per sempre. Le spense una sigaretta sul braccio destro sogghignando, mentre la insultava, mentre le sputava in faccia. Rinetta, oltre all’umiliazione e al dolore fisico lancinante, si sentì devastata dentro. Sentiva di trovarsi in un tunnel senza via di uscita e così, con gli occhi persi rigati di lacrime, si diresse in stazione per buttarsi sotto un treno.

Ma poi, per uno strano imprecisato motivo, decise di prenderlo quel treno, ci trascorse tutta la notte e si ritrovò in un’altra sconosciuta città. Si sentiva come un equilibrista su un filo inesistente. La sua borsetta era vuota, c’erano solo pochi spiccioli. Avrebbe voluto acquistare del coraggio, per sentirsi forte in quel momento in cui era così fragile, invece quei pochi spiccioli furono appena sufficienti per fare una telefonata… quella che le avrebbe cambiato la vita.

Chiamò Rocco, suo fratello maggiore, l’unico essere umano che l’avrebbe difesa, capita ed aiutata. Fu lui il cavaliere tanto atteso delle favole che, col suo destriero bianco, riuscì a liberare dalle catene l’infelice principessa. Pur vivendo all’estero Rocco si precipitò da lei. La trovò in stazione di notte, raggomitolata su una panchina, infreddolita dalla vita e impaurita dalla solitudine, con i morsi della fame che la attanagliavano e le lacrime di smarrimento che le rigavano il viso. Lui con un abbraccio forte e due banali parole di conforto le fece dimenticare tutte le brutture del mondo. Lui le compro un panino, le asciugò le lacrime e la coprì col suo cappotto scuro, alzandole il bavero per difenderla dal freddo della notte. In quell’istante e con quei semplici gesti virtuosi intrisi d’amore, quel piccolo grande uomo nel suo cuore diventò per sempre il suo papà.

Rocco la portò con se in Inghilterra e le presentò Jennifer, la sua compagna, la quale la accolse sotto la sua ala protettrice e la aiutò nella metamorfosi. Quella splendida rosa scarlatta, tatuata per coprire l’orrendo marchio di appartenenza dell’orco, in realtà rappresentava con evidenza l’avvenuta rinascita, i cui quattro rami intrecciati sino alle intercapedini delle dita simboleggiano ognuno un preciso percorso (bellezza, autostima, autonomia, allegria).

Jennifer le insegnò a curare il proprio aspetto esteriore. E’ vero che la bellezza non è tutto ma il primo impatto con la gente è dato da ciò che cattura lo sguardo e la trascuratezza non è mai un bel biglietto da visita. Vera aveva così imparato ad argomentare i gesti e coltivare le parole, mettendoli nella giusta collocazione, con eleganza. Se da adolescente mi dicevo che Rinetta non fosse brutta ma solo trascurata, adesso devo dire che Vera non è bella; però quel viso dai tratti somatici imperfetti ha un qualcosa di inaspettatamente sensuale e seducente. Soprattutto quando si gira di spalle e dà la schiena al mondo è indubbiamente femmina. Quasi come il fusto di  un albero secolare sembra forte, audace, baldanzosa. Sembra che le sue movenze siano accompagnate da musica, fatta di note immaginate e intonate, che risuonano tacitamente ed inconsapevolmente nel cervello di chi la osserva, mentre lei, con gesti sapienti, incurante di tutto, cammina lentamente.

Jenny le insegnò a volersi bene, a proteggersi e ad essere autonoma. Le fece promettere che mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di approfittarsi della sua bontà e generosità in quel modo vile e violento. Anche se lei allora non lo aveva ancora capito, è come suo fratello Rocco: una piccola roccia ben salda nel mare in tempesta. Se pur il riverbero delle onde la scalfisce, è capace a non farsi distruggere, sempre dritta e solida a contrastare il mare. Fu così che, decisa a non respirare più l’aria malsana di un pessimismo bloccante, tirò fuori, come da un magico cilindro, risorse che non sapeva di avere. Iniziò il suo percorso con un biglietto della metro ed una cartina di Londra in mano e, pian piano, prese il suo posto in quella bellissima metropoli piena di sound e colori vivaci. Per troppo tempo era stata triste e incurante delle bellezze della vita. Ma poi per fortuna qualcosa è cambiato. Quando impari a sorridere e sai fronteggiare le situazioni, capisci che, come ha già detto qualcuno, il sorriso è una curva che raddrizza sempre tutto.

Mentre Jenny, la cognata psicoterapeuta, impartiva le sue lezioni di vita ed accompagnava la “germogliosa” Rinetta verso la fioritura, il buon Rocco, piccolo uomo dal cuore grande e dallo sguardo fiero, si prese la briga di tornare al paesello per mettere un punto ad alcune incresciose situazioni che Rinetta non avrebbe potuto affrontare da sola. Disse ai suoi familiari, stupidamente indignati perché la fuggitiva aveva lasciato il fidanzato (ma incuranti del fatto che quest’ultimo la usasse come un posacenere), di non cercarla più. Lei stava bene ed il suo futuro era altrove, in un magico posto lontano dove c’era vita e terreno fertile per i suoi bisogni. E poi, Rocco assieme ad una banda di amici, non potè esimersi da fare una visitina all’orco, il quale non appena posto di fronte a qualche innocua minaccia perse tutta la sua baldanzosa cattiveria e diventò docile come un agnellino. Per essere sicuro che non importunasse più Rinetta Rocco si propose di fare lo stesso gesto che lui aveva fatto a lei, ma bastò che gli bruciasse appena la punta di un pelo del braccio con la sigaretta per vedere quella viltà di uomo dimenarsi e contorcersi come un bambino impaurito.

Per concludere il riassunto di quegli anni persi Rinetta mi raccontò del suo impervio tragitto emotivo nel turbinio dell’amore, fatto di ricerca spasmodica di affetto e slanci impetuosi, fatto di disequilibrio tra prendersi e donarsi, fatto di contrasti tra stabilità emotiva e tradimenti per paradisi erotici, fatto di Eddy, suo marito, l’unico uomo che è mai riuscita ad amare. Lo poteva amare solo fino ad un certo punto oltre il quale aveva paura di perdersi e non essere più se stessa, oltre il quale non poteva più tutelarsi perché sarebbe riapparsa Rinetta con il suo bagaglio colmo di tacita sottomissione e avrebbe rovinato tutto. Non aveva certezze nel rapporto con Eddy se non l’aver assunto il suo cognome, ma non l’abbandonava mai la speranza che attraverso quell’altalenante romanzo emozionale sarebbero andati avanti per sempre.

Dopo Vera volle sapere di me, della mia famiglia e dei miei sogni, ma non avevo  granché da dire. La mia vita era routinaria, immersa nella circolare monotonia di chi fa sempre le stesse cose (casa, marito, figli, spesa, cucina) ed ha relegato i propri sogni tra la polvere di un cassetto dimenticato, convinta che siano irraggiungibili come pianeti nell’universo. Avevo un marito e tre figli più o meno adolescenti, vivevo in una casa normale con un cane normale, facevo la casalinga normale e sognavo ad occhi aperti di girare il mondo e diventare una scrittrice di successo. In due parole avevo sintetizzato e racchiuso la mia vita in un barattolo, piccino piccino, come quello del concentrato di pomodoro.

Dopo quel lungo racconto pregai Vera di lasciare l’albergo per essere mia ospite; sarebbe rimasta poco più di una settimana e, se avesse soggiornato lì sarebbe stato difficile vedersi. Vera era venuta per la prima volta dopo tanto tempo, perché finalmente pronta a contrastare l’eco assordante dei brutti ricordi; doveva sistemare degli affari di famiglia, adesso che Rocco, come la loro mamma, si era ammalato di Alzheimer e non era più in grado di occuparsi neanche di se stesso.

Avere Vera in casa era una gioia; lei era spumeggiante come un fiume in piena, diversa dalla ragazza che avevo conosciuto a scuola. Durante quella settimana ci eravamo riscoperte complici, intrecciate in un legame amicale forte, fatto di ricordi di un’adolescenza condivisa e condito da una maturità consapevole. E’ stato bello constatare che il filo che ci aveva unito in gioventù ha resistito allo scorrere del tempo e alla vastità delle distanze per regalarci ancora una volta il calore dei sorrisi autentici ed il sapore di abbracci colorati e fraterni.

Vera era una donna arguta, fascinosa, sicura di se, incurante del giudizio della gente; ogni mattina indossava la sua tutina da jogging ridotta ai minimi termini ed usciva a correre in paese, suscitando sguardi avidi negli uomini e critiche invidiose nelle donne. Poi si fermava al bar e comprava le brioche appena sfornate; al suo passaggio il brusio quotidiano della vita di paese sembrava perdersi nell’aria brulla per congelarsi in un tacito silenzio imposto dalla presenza di quell’eterea figura femminile, un tempo così diversa e ora così impertinente in quello scenario di normale ordinaria quotidianità. Ben presto si era diffusa la voce che la figlia più piccola dei Caccamo, quella bruttina che era svanita nel nulla come una foglia al vento, era tornata e si era imposta al mondo. Adesso era bella, era una dottoressa importante che viveva all’estero.

Agli occhi di tutti Vera si mostrava sempre forte e sicura di sè. Solo quando io l’abbracciavo teneramente e le dicevo che le volevo bene tornava ad essere la Rinetta fragile dei tempi della scuola. Era come si sentisse non meritevole di quei gesti affettuosi gratuiti ed ogni volta si scioglieva nel mio abbraccio con un fiume di lacrime. Era evidente che i vetri taglienti che aveva incontrato nel suo cammino l’avevano scalfita nel profondo. Mi voleva sempre al suo fianco, negli incontri con i familiari, notai o avvocati; sembravo essere la sua fonte energetica, da cui comprava nutrimento e forza. Ogni tanto, senza dare nell’occhio, mi stringeva la mano da sotto il tavolo o mi lanciava sguardi ammiccanti e mezzi sorrisi per essere rassicurata. Non abbracciò nessuno di quella famiglia non famiglia, dimostrandosi fredda e scostante; a tutti girò le spalle e andò via sculettando, a suon della sua musica immaginaria, abbarbicandosi al mio braccio.

Ci tenne a constatare di persona che fine più o meno ingloriosa avessero fatto i nostri compagni di scuola e fu lì che iniziò la parte più divertente del nostro ritrovarci. Prima le donne; volle incontrarle ad una ad una, ed ognuna di esse, ormai rose appassite senza più i tratti della bellezza della gioventù, al suo cospetto apparivano paesanotte provinciali.  Pur non facendo nulla per scatenarlo (perlomeno non volontariamente), Vera suscitava nei loro mariti pensieri di un erotismo acceso, quasi malsano che traspariva velatamente evidente dai loro sguardi lussuriosi.

Se qualcuna di loro, nostre ex compagne di scuola, un po’ spinta da sincero pentimento un po’ per farsi amica una persona così importante, cercava di stringerla in un caloroso abbraccio,  veniva spiazzata da un deciso rifiuto. Vera si ritraeva, quasi inorridita, esclamando la solita frase che aveva detto anche ai suoi parenti e che io trovavo alquanto surreale: “no, grazie. Io abbraccio solo Cristina”. E si avvinghiava a me come un’ancora in un porto sicuro che vuole proteggersi dalle tempeste. Non si fece abbracciare neanche da Maria Vittoria, la quale, nonostante gli innumerevoli trattamenti estetici a cui l’aveva sottoposta la perfida signora Bassi, era rimasta massiccia come un armadio a quattro ante e dimostrava il doppio dei suoi anni. Per sua fortuna la signora Bassi era già morta da tempo perché non so come se la sarebbe cavata, visto che Vera, tra frizzi e sollazzi, non perdeva occasione per fare piccoli innocenti dispettucci ai nostri ex compagni, bucando gomme o rubando cassette di arance a seconda delle circostanze. Non credo che avesse veramente sete di vendetta, semplicemente voleva dimostrare a Rinetta, rinchiusa nella scatola della sua coscienza, che avrebbe dovuto reagire… semplicemente… per volersi bene.

Solo con due persone fu più esplicita ed incisiva: il Ferro e il Fuoco.