Ancora una volta apro il grande libro con attenzione, girando le pagine di pesante carta ingiallita una ad una. Il leggero spostamento d’aria fa tremolare la luce della candela, e come diceva il vecchio Nasrudin, le parole sembrano prendere vita.

Ricordo che in una esistenza precedente percorrevo le strette strade di El Qasr alla ricerca del motivo per cui avevo deciso di venire ancora una volta in Egitto. L’ombra proiettata dai muri era gradevole, nel clima secco del deserto, ma una noia mortale continuava ad accompagnarmi. Tutto già visto, tutto già sognato.
Le bianche costruzioni del paese si calcinavano nel sole impietoso, l’oasi di Dakhla sembrava esistere per una bizzarra interruzione dello spazio e del tempo.

La bambina fece irruzione nella stanza e corse a rifugiarsi tra le braccia del vecchio. Immerse la faccia nella lunga barba bianca e si rannicchiò tra le sue braccia, tremando.
L’uomo la strinse per soffocare i singhiozzi, poi posò sul supporto il bocchino del narghilé che stava fumando e le sollevò il viso per guardarla negli occhi.
«Cosa succede, piccola mia?» le chiese.
«Ho sognato, nonno, ho sognato di nuovo!».
«Ti ho detto che non devi avere paura dei tuoi sogni, Aisha, tu hai un grande dono».
«Ma io ho paura lo stesso!».
Il vecchio sospirò: quella sua nipote aveva davvero un dono, ma come tutti i doni aveva un risvolto avvelenato, e lei lo stava già sperimentando. Lui aveva sperato che crescendo questo svanisse, come tante volte succedeva, che diventasse una ragazza e poi una donna normale, ma gli anni passavano e le visioni diventavano sempre più nitide, anziché scomparire. D’altra parte questa era una caratteristica di famiglia, e nessuno sfugge al proprio destino.
Fece quindi l’unica cosa che poteva fare per consolare quella disgraziata nipote.
«Dimmi, bambina, raccontami quello che hai sognato».
Aisha tirò su col naso, rincuorata dalle parole del nonno:
«Ho visto uno straniero che veniva nel nostro mercato, un uomo dalla pelle bianca».
«Come era quest’uomo? Descrivilo».
«Era alto, con i capelli neri e gli occhi marrone. Magro, portava degli occhiali e si muoveva guardandosi intorno con aria annoiata. Aveva dei pantaloni e una camicia chiara, e un cappello».
«Un turista».
«Ma non vengono mai turisti fin qui!» protestò la bambina, «sanno che potrebbero venire aggrediti e derubati dietro ogni angolo».
«Ma nel tuo sogno a quell’uomo non succedeva» osservò lui.
«E’ vero, non ci avevo pensato. Anzi, credo che tutti si tenessero a distanza, come se fosse malato»
«Questo è interessante» commentò il vecchio.
«Era davvero malato?».
«Se è come penso, più che essere malato credo che quell’uomo portasse su di sé una specie di malattia».
«Che malattia?».
«Una maledizione, di quelle che ti marchiano con un segno che nessuno può vedere, ma che tutti percepiscono con gli occhi dell’anima».
«Ma io l’ho visto!»
«Perché tu hai il tuo dono, gli altri no».

Cosa ci facessi lì non lo so. Mi ci aveva portato la mia indolenza nel programmare le uscite, forse la voglia e la speranza di trovare qualcosa di nuovo, anche se ero cosciente che la cosa più probabile era incontrare qualcuno che mi alleggerisse del portafoglio. Non che avrebbe fatto un grande affare, mi sarebbe dispiaciuto soprattutto per la foto che tenevo nascosta nell’imbottitura: i miei documenti erano al sicuro in albergo e quanto ai soldi… beh, meglio lasciar stare.
Fu un improvviso ondeggiare della tenda che sostituiva la porta della casa a catturare la mia attenzione.
Un subitaneo spalancarsi del vuoto, l’assenza di luce, il fresco.
Si poteva definire un bazar, quell’osceno buco nella realtà, un piccolo negozio di cianfrusaglie che non avevano mai conosciuto compratori, un’esposizione per turisti che non passavano mai per quelle vie?
Fumo, un fumo denso e dolciastro, e oltre il fumo un vecchio che sorseggiava del the con aria assorta, spostando delle piccole pietre scure sul tavolo fiocamente illuminato da un polveroso raggio di sole che filtrava da una finestra chiusa per tenere fuori il caldo del pomeriggio.
In qualche modo mi vide, o intuì la mia presenza, e senza sollevare la testa disse:

«Entra pure, il mio negozio è a tua disposizione».

Entrai, oramai ero praticamente dentro, e non potevo esimermi da una visita di cortesia… no, non sto dicendo la verità… ero attirato da qualcosa in quel tragico, poverissimo antro. Un odore strano, (cinnamono?), si diffondeva nell’aria e dava un senso di vertigine.
Vagai con lo sguardo sugli scaffali, ma i pochi oggetti esposti, statuette di legno scuro, coperte, un candelabro verdastro, non potevano giustificare un mio interesse, così ritornai a guardare il vecchio, che questa volta alzò la testa:

«Giochi a dama?» mi chiese.

Guardai meglio e mi resi conto con stupore che il mandala misterioso su cui credevo stesse meditando non era che una semplice scacchiera, inscurita dal fumo e dal tempo.
Catturato da quell’atmosfera surreale mi sedetti di fronte a lui e mi apprestai a cominciare la partita.
Il vecchio prese una tazza vicino a sé e mi versò un poco di quella bevanda dal sapore di cannella, sgombrò la scacchiera e mi invitò a fare la prima mossa. Ero un discreto giocatore, un giocatore da circolo, anche se non avevo mai dato grande importanza alla dama, preferendo gli scacchi, ma mi impegnai lo stesso per vincere quella partita, prima un poco nervoso e poi, man mano che accumulavo vantaggio, sempre più sicuro di me.

Fu con uno stupido sorriso che mi accinsi a fare la mossa vincente e a sgombrare nuovamente il terreno di gioco. Il the, sebbene caldo, mi aveva rinfrescato ed ero completamente a mio agio.
Ma il vecchio fermò la mia mano e con un cenno divertito degli occhi mi invitò a guardare meglio. Improvvisamente mi accorsi che ero caduto in una trappola, e che la mia mossa obbligata innescava una combinazione che mi avrebbe fatto perdere gran parte delle pedine. Non c’era niente da fare, ero sconfitto, e non riuscivo neanche a capire perché.

«Spesso le cose non sono quelle che sembrano» disse ancora lui «e spesso si vede solo quello che si vuole vedere!».

Ero sbalordito, interdetto, ma lui continuò:

Un uomo era inginocchiato a cercare qualcosa. Un vicino lo vide e gli chiese cosa avesse perso. «La mia chiave» rispose l’uomo. Il vicino si unì alla ricerca, ma dopo qualche minuto, non trovando niente, gli disse: «Dove l’avete fatta cadere?».
«Lungo la strada».
«Ma allora perché la state cercando qui?».
«Qui c’è più luce».

«A volte» concluse il vecchio «non cerchiamo le cose dove sono, ma solo dove ci fa più comodo cercarle».

Sarebbe stato logico alzarmi e lasciare quel vecchio pazzo al suo delirio, ma Cervantes aveva visto le sue verità nel viaggio allucinato di Don Quijote, Borges nel giardino dei sentieri che si biforcano ed io era destino che l’incontrassi nella bottega di un alchimista dell’anima.

Mi alzai, tuttavia, ma alle spalle del vecchio scorsi il volto della donna più bella che avessi mai osato immaginare. Gli occhi verdi erano smeraldi su una pelle bianchissima, le labbra morbide e piene mi sorridevano misteriose, mentre i capelli rossi le scendevano sulle spalle come una abbagliante fiamma selvaggia…. Mi persi in quella visione molto più del consentito nei confronti di una donna araba, e quando me ne resi conto abbassai i miei occhi sul vecchio, e lo vidi sorridere divertito.
Li rialzai, ma lei non c’era più, miraggio etereo perso in un istante di sogno impossibile.

Lasciai che il gruppo con cui viaggiavo continuasse il suo tour, raccontando di una mia momentanea indisposizione e assicurandoli che mi sarei fatto vivo per il ritorno in Italia, e presi a frequentare tutti i giorni Nasrudin, come scoprii che si chiamava il vecchio.
Lui mi insegnò progressivamente a dimenticarmi delle nozioni che riempivano la mia mente, e io imparai tanto bene che mi dimenticai di me stesso e del passare del tempo.
Quando i miei soldi finirono lasciai la stanza dell’albergo, per economica che fosse non me la potevo più permettere, e mi trasferii da lui.

Passò il tempo del mio ritorno ma nessuno venne a cercarmi. Abbandonai anche i miei abiti occidentali, la giacca e i pantaloni chiari, le camicie, la sahariana, e cominciai ad indossare le larghe tuniche e i sandali degli abitanti del luogo. La mia barba crebbe, ed anche i capelli, presi l’abitudine di portare in testa una specie di copricapo piatto che mi riparava dai forti raggi del sole. La mia pelle si scurì e si screpolò. e la dieta povera di proteine e grassi asciugò il mio corpo.

Non rividi più quella donna meravigliosa, ma più di una volta, di notte, quando l’aria fresca del deserto portava il profumo dei fiori dell’oasi fin dentro la mia finestra, mi capitava di sognare i suoi capelli che scendevano a carezzarmi il volto, e le sue labbra sfiorarmi il collo in un bacio leggero.

Un giorno infine Nasrudin mi comunicò che la mia permanenza era giunta al termine. Me lo disse tranquillamente, senza darmi spiegazioni.
Trasognato, salii in camera, mia dove mi aspettava un’anziana donna che mi tagliò i capelli e la barba.
Mi furono restituiti i miei vestiti, lavati e stirati, e con un certo impaccio lasciai le vesti arabe per tornare agli scomodi abiti occidentali. Dentro al portafoglio c’erano anche i miei documenti, che avevo completamente dimenticato, e i soldi necessari per il viaggio di ritorno.

Vestito come quando ero entrato la prima volta nel negozio, tornai a scostare la tenda, e ancora vidi il vecchio davanti alla scacchiera. Ancora giocai con lui e persi, come avevo sempre fatto, ma questa volta mi resi conto dell’inferiorità del mio gioco.
Alla fine della partita lui alzò lo sguardo, sgombrò il tavolo e mi fissò senza sorridere:

«Il destino degli uomini» disse «è di arrivare alla Luce. Tu sei giunto qui che eri cieco, ma ti sei reso conto della tua cecità e questo ti è valso il diritto di tentare di tornare a vedere. Un giorno sarai nella Luce, ma a nessuno è dato di sapere quando. Tu vedrai, ma il tuo destino è ora di percorrere la notte, e questa sarà la strada su cui dovrai camminare».

Questo disse, e prima di accomiatarmi prese dallo scaffale il vecchio libro che sto ora leggendo e me lo porse con fare solenne. E’ un libro antico, forse di grande valore, e io riesco a comprendere i suoi arcani caratteri, ma il loro ricordo svanisce da me subito dopo la lettura, lasciandomi soltanto un vago sapore, e un destino.
Così ogni sera leggo nuove frasi, e così il mio cammino prende forma.

Ma ormai anche questa notte il buio è calato sulla città, e dal mio rifugio, dal mio cubo sulle alture, vedo le luci accendersi nelle abitazioni e l’imbrunire del cielo sul mare. Sento crescere in me la sensibilità e la voglia, sento le mie mani farsi leggere e il mio udito sensibile, la vista acuta.

E’ notte fonda, ormai, ed il silenzio avvolge le cose. Sto scendendo con passo elastico le antiche crose che portano verso il mare, torrenti di pietra che scendono dai monti tra gradini e sassi sconnessi.
Sono arrivato sulle strade dell’angiporto che percorro ogni sera, vie malsicure che la gente evita in queste ore ma che a me appartengono, come mi appartiene ogni cosa della notte.
Passo vicino ad una pallida prostituta stanca e annoiata, che in qualche modo sembra riconoscermi ed evita di fare la sua offerta, nonostante nessun altro in quel momento le attraversi lastrada.

Più avanti, dove le vie si allargano in ampi vuoti porticati, una banda di ragazzi di colore sta ridendo rumorosamente prendendo a calci lattine di birra vuote. Mi vedono, sghignazzano.
Tre di loro si staccano dal gruppo e vengono verso di me, spavaldi. Percepisco le loro emozioni: eccitazione, violenza, esaltazione. La logica del branco. Sono in caccia.
Ma io non sono preda per loro. Mi tagliano la strada, sono più piccoli di statura di me ma si sentono forti, cattivi. Il capo solleva con un dito la visiera del capellino da basket e mi guarda negli occhi. Lo guardo. Vedo miseria e violenza, odio, noia. Sento eccitazione, bisogno di primeggiare sui suoi compagni. Sento paura. Paura di perdere, paura di non riuscire ad essere sempre il primo, paura di morire, di invecchiare. Paura. Vedo il suo sguardo tremare, lo vedo fare un impercettibile passo indietro, a disagio. La sua mano destra va a proteggersi la gola, la sinistra la copre. Fatica a respirare. I suoi amici lo guardano allarmati, ma anche loro allargano le braccia e fanno un passo indietro, gli occhi sbarrati.
Sento un velo nero di gelo scendergli sul cuore, lo vedo annaspare, finché non riesce a voltarsi e a scappare, lontano da me ma anche dai suoi amici, che lo guardano senza capire.

Sorrido, e proseguo il mio cammino, un attimo dopo ho svoltato l’angolo e sono un’ombra nel buio.

Oltre lo stradone raggiungo la zona dei giardini, il bordo di un piccolo parco che la notte viene chiuso. Cammino leggero sul marciapiede umido, guardandomi intorno. Avverto sensazioni intorno a me, ma non vedo nessuno. Ecco! Ho capito! Viene da quella macchina parcheggiata nell’ombra… feronomi… due amanti che si scambiano carezze. E… qualcos’altro, non lontano da loro.
Mi avvicino silenziosamente e intravedo l’uomo tra le fronde dell’albero che li spia.
Loro non si sono accorti di niente, I sedili sono reclinati, lui gode della loro vista. Un terzetto bene assortito, chissà se i due ragazzi farebbero ancora l’amore se sapessero di essere osservati…. Chissà, forse l’immaginano. Sarebbe più divertente se lo pensassero…

Ombra nell’ombra, arrivo vicino ai vetri leggermente appannati e li vedo baciarsi con passione, strofinando i corpi uno contro l’altro. Sono parzialmente vestiti, le mani scivolano ebbre a cercare il contatto con la pelle. Il guardone tra gli alberi osserva con attenzione. E’ in qualche modo un amico, pronto a fuggire rumorosamente se qualcosa verrà a turbare la scena….
No, non sarò io a turbarla, non romperò quello strano triangolo, altre sensazioni mi attendono poco lontano.

Qual è il senso del libro che accompagna i miei giorni trasognati e le mie notti buie? Non lo so, leggo e dimentico le sue parole, mi perdo nei suoi labirinti magici. Sogno.
Sogno o forse sono sognato, forse sogno di sognare il sogno di un altro, o è lui che sogna nel mio, e la realtà si confonde con l’immaginazione, ma forse tutto è reale.

Ritornato dall’Egitto ho provato a riprendere il lavoro, ma ben presto mi sono reso conto che una forza misteriosa mi sottraeva agli impegni quotidiani. Osservavo con distacco le discussioni in ufficio e sbrigavo le pratiche senza pensare, seppure correttamente.
La notte cominciai ad uscire, io che non uscivo mai, sempre più spesso, sempre più a lungo.
Cominciai a mettermi in malattia, poi presi un periodo di aspettativa.
Scoprii così che sul mio conto corrente qualcuno versava l’equivalente di uno stipendio. Pensai ad un errore, ma in banca mi assicurarono che era tutto regolare, che era un vitalizio proveniente dall’estero…
Non riuscii a sapere altro, e col passare del tempo persi ogni interesse per la questione. Di giorno leggevo e di sera uscivo, e piano piano diventai una creatura della notte.

Sto camminando adesso per la strada di un quartiere della piccola borghesia. I vecchi palazzi si affacciano direttamente sul marciapiede con una pretesa di dignità, e in alcuni casi le finestre denunciano la presenza di alti soffitti, come si usava un tempo.
Buon terreno di caccia, zona di emozioni represse, a volte dolci, a volte violente, genuine.

Durante i miei inconsapevoli viaggi notturni sogno a volte di incontrare quella donna perduta, quella visione impressa per sempre sulla mia vita… o meglio, io credo di vederla tutte le notti, ma solo poche volte la ricordo anche nella luce del giorno dopo.
Conosco il suo significato. So bene che lei rappresenta quel territorio della mia anima da percorrere senza mai indietreggiare, senza mai avere paura. Un cammino attraverso l’inferno per arrivare a vedere la luce. Ma so anche che è una persona reale, nascosta da qualche parte, una Uri di un paradiso da raggiungere.

E intanto, attraversando la notte, porto una scheggia di paradiso nelle vite di quelli che incontro, ma solo in quelli che possono vederlo, in quelli che più o meno consapevolmente il paradiso lo cercano.

No, non mi può fermare quel balcone al secondo piano da cui proviene una debole luce ma una intensa fragranza… in un attimo salgo leggero per la grondaia e scavalco la balaustra.
Oltre i vetri una piccola sala, un corridoio e, dall’altra parte, una cucina.
Sono le emozioni che mi attirano, le endorfine che spargono nell’aria un odore sottile che pochi possono percepire e che mi inebria… Può essere profumo di amore, di morte, di dolore o violenza selvaggia…. Emozioni.
Ma è l’amore che mi attira, l’amore che ha il più dolce degli aromi, che sa raggiungere le vette più alte dell’essere umano. E perché mai, se fosse diverso, l’amore sarebbe l’ispiratore dei poeti, dei santi, dei mistici di tutto il mondo?

Nella cucina ci sono due persone sedute su un piccolo divano che circonda due lati di un tavolo di legno. Stanno mangiando della frutta, delle fragole, che immergono in un denso sciroppo.
Si guardano con desiderio, ma la situazione è come bloccata dall’indecisione, ed entrambi aspettano che l’altro smetta di mangiare, dica qualcosa, tenti l’approccio di un bacio.
Ma perché aspettare quando io ho attraversato la notte per questo? Accarezzo leggermente la mente della donna, basta veramente poco per rimuovere quella indecisione, e lei guarda la grossa fragola che ha in mano, sorride e la offre alla bocca dell’uomo, che senza esitazione l’accetta.
Adesso è lui che ne raccoglie una e la intinge con attenzione nello sciroppo, per portarla alla bocca di lei, che l’accoglie socchiudendo gli occhi e trattenendo un attimo le sue dita tra le labbra…
E’ un gioco semplice ma di intenso erotismo, ed è bastata una scintilla per scatenare tutto. Adesso lui si è alzato e le è davanti. E’ leggermente più alto, e lei deve alzare il capo per guardarlo.
Si baciano, lentamente. Poi ancora, con più passione, a lungo. I corpi si toccano, si staccano.

E’ lei la donna incontrata in Egitto in quel giorno perduto, è lei la donna dei miei sogni? Non è lei ma è lei, è lei nei miei occhi, nella mia mente, è lei che mi guida, la mia luna, la mia stella d’Oriente.

Ancora una casa, ancora una finestra, ma in un quartiere di periferia. Due anziani davanti alla televisione, lei che finisce di sparecchiare la tavola, lui che ha appena cambiato la sabbia del gatto e ha preparato il sacchetto della spazzatura da portare giù in strada, ma l’indomani mattina, quando andrà a comprare il pane, perché nel loro palazzo non c’è l’ascensore e quattro piani di scale sono fatica, alla sua età.
Ora si siedono uno vicino all’altro, senza parlare, ma non perché non abbiano cose da dirsi, semplicemente s’intendono con un gesto, un’occhiata. Sullo schermo scorrono le solite immagini, un film, o forse uno sceneggiato, simile a mille altri che hanno visto.
Riesco a leggere nei loro pensieri: il lavoro lasciato da anni, la pensione sempre meno in grado di fronteggiare i costi che aumentano, un figlio lontano che vive la sua vita, e d’altronde è giusto così. La loro vita, invece, si avvia lentamente verso la fine, e questo lo accettano con muta rassegnazione, consapevoli che poco di buono potrà venire ancora per loro.
Ma io vedo molte cose, oltre alle rughe sulle loro fronti, nel profondo degli occhi schiariti dagli inizi di un velo: vedo un amore che dopo gli anni della passione ha visto quelli della solidarietà, dell’affetto, vedo la serenità di chi ha conosciuto lo scorrere della vita e ha imparato che niente è veramente diverso, molto diverso dall’altro. Che chi fa molte promesse racconta molte bugie, che è difficile trovare persone di cui fidarsi, ma che è possibile, se uno crede nell’amicizia. Che anche il silenzio è un valore.
Allora mi spingo tra di loro, leggero come un’ombra, e insinuo un pensiero nella mente di lui, che passa un braccio sulle spalle della sua compagna in una parvenza di abbraccio. Lei si appressa un poco e restano così, vicini, a godere l’uno del calore dell’altra, sapendo che finché il destino lo permetterà percorreranno insieme la loro strada, sempre, perché la cosa più importante è non restare mai soli.

Questo mi manca, questo non potrò avere finché non troverò realmente la mia Signora, la mia Fatima, il mio sogno del deserto, il mio inizio e la mia fine. Ma lei è lì per indicarmi la Luce, la fine del cammino, ed il suo dolce volto tra le mie braccia, i suoi verdi occhi riflessi nei miei saranno il premio che mi attende alla fine di questo percorso dentro di me, se sarò capace di affrontarlo fino in fondo.

Stasera ho fatto un altro passo, ho aggiunto una stilla di passione a chi già si amava, perché l’amore senza passione è destinato a spegnersi come una candela senza cera, ed ho regalato un attimo di dolcezza dove soltanto la brace ancora ardeva sotto la cenere, ma di un calore che sarebbe durato fino alla fine.

Scendo rapido sulla strada… il tempo è passato e tra non molto anche la notte si avvierà verso la fine, lasciando il posto alla luce grigia del giorno. E’ tempo che rientri, è tempo che il mio peregrinare notturno finisca e che ritorni a casa per chiudere con cura il grande libro che accompagna la mia vita.

Fino a domani notte.

 

 

img : Anselmo Bucci, Bottega Araba, 1913 – oil on canvas, 78 x 42 cm