La luce del mattino comincia a filtrare dalle tapparelle parzialmente abbassate. Con un sospiro mi giro di lato. Lei è lì di fianco a me, come sempre. Vedo il profilo del suo seno alzarsi e abbassarsi con il respiro.
Scendo dal letto più silenziosamente che posso e vado in cucina a preparare la colazione. Lei mi raggiunge qualche minuto dopo.
Sul tavolo c’è un vaso con dei fiori di campo che abbiamo raccolto la domenica prima. Sono leggermente sfioriti.
«Ciao» le dico.
«Ciao» risponde sedendosi.
Mi tiro su e vado a prendere la teiera e i biscotti, ci verso dentro l’acqua bollente e un paio di bustine.
«Sei silenzioso».
La guardo con occhi stanchi.
«Stavo pensando ad una cosa che mi è capitata ieri» dico, muovendo le bustine di the.
«Racconta».
Mi morsico le labbra, sforzandomi di trovare le parole. Perché è così difficile raccontare qualcosa che ci ha colpito in un modo che gli altri capiscano?
«Ieri pomeriggio ero andato a fare una passeggiata sul lungofiume…».
«Sì, me l’avevi detto».
«Be’, stavo camminando da un po’ ed ero quasi uscito dal paese, quando…».
Suona il suo cellulare.
«Un attimo» dice, e si alza per andare di là.
Sento che è una sua amica, cominciano a parlare.
Fanculo.

* * *

Stavo camminando sul bordo strada, dove la statale costeggia il torrente. Mi piace percorrere queste vie, perché a parte le auto che passano veloci è raro incontrare gente – gente con i bambini, intendo – e poi il tessuto urbano degrada rapidamente, mischiandosi con la campagna, e restano casette in pietra a vista tra i casermoni di cemento che cominciano già a mostrare il peso degli anni.
Il torrente, poi, ha la fortuna di essere trascurato dall’uomo, e se c’è stata abbastanza recentemente una piena che ha portato via la spazzatura, con un po’ di fantasia sembra di trovarsi in un altro mondo. Non dico che si vedano saltare le trote, ma c’è pace e si possono trovare angoli di antica bellezza, come quel vecchio mulino abbandonato in cui l’acqua salta ancora tra le pale arrugginite.
Incuriosito, mi ero informato dall’anziano parroco della chiesa vicino, che mi aveva raccontato che una volta lì si macinava veramente il grano, prima che l’evoluzione dei mercati e le nuove norme igieniche ne imponessero la chiusura.
Anche se non serviva più a niente, restava lì, pietra su pietra, a testimoniare il tempo che passa.
Sotto il mulino, sulla destra, una stradina superava il torrente su un ponticello e portava ad una piazzetta con tanto di lavatoio – questo ormai secco – sotto alcuni alberi di acacia che davano fresco estate e inverno. Lì mi capitava spesso di fermarmi a sedere su una panca di pietra addossata al muro, e se il tempo era piacevole passavo qualche mezzora a leggere uno dei libri che mi porto sempre dietro nella tasca del giubbotto. Questa è sempre stata una mia abitudine, di non rimanere mai senza un libro vicino, perché per me è l’unico modo di non restare mai solo. Mai solo per davvero, intendo.

Fu con un certo stupore che vidi il mio posto occupato da un uomo che stava dipingendo.
Dopo un attimo di incertezza mi avvicinai. Non avevo alcuna priorità su quel posto, ma mi sembrava che in qualche modo lui avesse invaso un angolo del mio mondo, quindi mi sentivo autorizzato a curiosare. L’uomo poteva avere la mia età – la mia mezz’età.
Indossavava jeans e una maglietta a maniche lunghe, e sopra portava una specie di cappa bianca, immaginavo per non sporcarsi con i colori. Di fronte a lui aveva una tela posta su di un cavalletto, che studiava con attenzione.
Poiché non riuscivo ad intravedere nulla sul bianco, mi avvicinai di più, pensando che forse stava cominciando da un angolo che avevo in parte coperto, così finii per schiacciare con il piede un ramoscello.
Il crack!, seppure molto contenuto, risuonò forte nel silenzio, facendo trasalire il pittore.
«Buongiorno…» dissi, imbarazzato.
Lui mi squadrò dal basso in alto.
«Buongiorno» rispose.
«Mi scusi se l’ho disturbato», dissi, «ma ho l’abitudine di venire spesso in questo posto ed è la prima volta che la vedo».
«È la prima volta che vengo qui» precisò lui.
Non era un invito a continuare la conversazione, così rimasi in silenzio e andai dall’altro lato della piazzetta, fingendo di contemplare il mulino.
Dopo qualche minuto mi risolsi di tornare sui miei passi e lasciare all’intruso quel mio piccolo angolo di paradiso, ma passandogli dietro non resistetti.
«Veramente splendido questo mulino da ritrarre, vero?» azzardai.
Lui si voltò verso di me, il pennello in mano.
«Io non sto ritraendo il mulino» disse.
C’era davanti, a meno di dieci metri di distanza.
«Ah sì? E cosa intende dipingere?».
«È una cosa personale».
Mi ritrassi.
«Mi perdoni» dissi, facendo atto di andarmene.
«No, non c’è nessun segreto» mi fermò lui «sto semplicemente facendo un ritratto della donna che amo».
«Ah!» esclamai.
Il pittore scosse la testa.
«Cosa c’è di strano?».
«Niente» dissi «è solo che non vedo niente…».
«Certo! È il mio amore, mica il suo!».
Confesso che rimasi interdetto e cominciai a dubitare della sanità mentale di quell’uomo.
«Se non è il mio amore io non posso vederlo…» feci timidamente.
«È ovvio, così come è ovvio che io non potrei vedere il suo». Si fermò, guardandomi «Ammesso che lei un amore ce l’abbia».
Non risposi alla sua illazione, forse perché mi bruciava dentro.
«Però non riesco a capire!» protestai invece.
Lui posò il pennello e si accinse a spiegarmi con pazienza.
«Lei che cosa fa?».
«Io? Sono un impiegato».
«Non le ho chiesto cosa fa di lavoro, ma cosa le piace fare veramente. Dipinge? Fotografa? Scrive? Pensa?».
«Ecco… a me veramente piace scrivere…».
«Bene. Allora pensi di voler scrivere qualcosa alla persona che ama. O su di lei. Che ne so, una poesia, un racconto in cui le dichiara il suo amore…».
«Sì, sì. Cosa c’entra?».
«Ecco. Quando lei si accinge a scrivere ha già in mente la poesia o il racconto, no?».
Ci pensai un attimo.
«Certo che sì. Magari non in tutti i particolari, ma…».
«Bene. Per me è lo stesso».
Non aggiunse altro. Riprese il pennello e si voltò verso la tela.

Vedendo che aveva preso ad ignorarmi, ritornai verso casa riflettendo sulle sue parole. Fatte alcune centinaia di metri arrivai nei pressi della chiesa. Vidi che era aperta ed entrai, andandomi a sedere su una panca in fondo all’unica navata. Era un luogo tranquillo, piacevole, l’odore d’incenso si confondeva con la gradevola frescura data dai muri spessi e dall’altezza del soffitto. Estrassi di tasca il mio taccuino e una penna e pensai al mio amore lontano, ai suoi occhi, alle sue mani, al suo gemere quando facevamo l’amore. Non riuscii a scrivere nulla, la pagina rimase bianca, eppure nella mente avevo tutto quello che avrei voluto dire, con estrema chiarezza, solo che non riuscivo a metterlo giù. Forse non era il momento, forse non bastava vedere le cose con la mente, bisognava anche entrare in sintonia con esse, soffrirle. Forse questa era la punizione, il contrappasso per aver desiderato qualcosa che non potevo avere.
Chiusi il taccuino, lo rimisi in tasca e tornai a casa. La sera non mi misi neanche al computer, presi un libro a caso dalla libreria, vidi che era un romanzo di Dostoevskij, lo soppesai e lo riposi, poi andai a cercare il mio libro-rifugio per i momenti di crisi, Il lupo della steppa di Hesse, la mia copertina di Linus, come le avevo detto per scherzo una volta – Dio mio, lo avevo detto a lei! – e lessi finché non mi addormentai sul divano.

Rumore di porta che si apre, è mia moglie che torna dopo aver finito la telefonata. Si lascia andare sulla sedia, versa nella teiera l’acqua calda che ho provveduto a sostituire e altre bustine di the.
«Era Mirella» dice «che noia!».
E allora perché ci sei stata mezz’ora? Penso, ma non dico niente.
Mangiamo in silenzio, poi lei si ricorda:
«Mi stati raccontando qualcosa?» mi chiede.
Alzo le spalle.
«Niente, era solo una cosa a cui avevo pensato».
Lei immerge un biscotto.
«Riguardava me?».
Mi prendo un attimo di tempo inzuppando anche io un frollino nel the.
«No» rispondo poi.
Proprio no! penso.