PREMESSA
La vita, infondo, è un racconto e la sua interpretazione.
BALTIMORA
Mi chiamo Baltimora e sono capitata per caso in questa storia ancora da scrivere e, dal momento che l’autrice non riesce a trovare un soggetto che la soddisfi, mi offro come spunto.
La stragrande maggioranza dei lettori ingenuamente coltiva la romantica convinzione che le storie nascano direttamente dalla testa dello scrittore, allo stesso modo di come Zeus partorì Athena, ma non c’è nulla di più falso perchè la letteratura, così come la storia, la filosofia e tutte le altre materie umanistiche, molto spesso trova l’estro nella rivisitazione, in chiave personale, di ciò che altri hanno prima di lui scritto.
E sono i soggetti, cioè i protagonisti delle storie, a presentarsi agli scrittori, esattamente come ho fatto io.
Ma quasi sempre accade che gli autori, con grande faccia tosta, e senza mostrare alcuna gratitudine, spaccino il soggetto come farina del proprio sacco: l’illuminazione, il colpo di genio, l’idea originale.
Una vecchia storia che si ripete fin dai tempi in cui l’uomo incideva graffiti sulla roccia.
Mi chiamo Baltimora, ed è bastato questo perchè l’autrice, priva d’ispirazione, e alla disperata ricerca di un’idea, immediatamente balzasse come un pupazzo a molla dalla sedia sulla quale giaceva inerte.
ELOISA E BALTIMORA
Mi chiamo Baltimora, perchè così ha voluto mia mamma che mi ha partorita in diretta sul palcoscenico di un piccolo teatro d’essai nella città di Baltimora.
Ovviamente quel parto non rientrava nella sceneggiatura se non fosse che il destino aveva deciso d’ anticipare di un paio di mesi, ed in maniera così plateale, il mio debutto sulla scena della vita.
Grazie a questa mia precoce performance, la compagnia aveva goduto per la prima, ed unica volta, dell’ebbrezza della notorietà, e così furono tutti d’accordo che mi venisse da subito assegnata una parte.
Perchè io ed Eloisa saremmo state, da subito, inseparabili.
Eloisa e Baltimora.
Eloisa è stata prima di tutto mia madre e solo in seconda istanza la prima donna della compagnia.
E dal momento che era lei, straordinariamente bella e straordinariamente persuasiva, a procacciare gli ingaggi, nessuno della compagnia cercò mai di sovvertire quest’ordine.
IL DIVINO RUDY
Mio padre non l’ho mai conosciuto ma neppure ne ho sentito troppo acutamente la mancanza
Una volta chiesi a mia madre di rivelarmi almeno il nome e lei rispose, Rodolfo Valentino, ma non chiedermi altro, aggiunse, che non saprei cosa dirti dal momento che tutto si è concluso nell’arco di una notte. Tu non gli somigli affatto, Baltimora, ma nessuno credo possa davvero somigliargli. E questo non è un male perchè i paragoni, il più delle volte, sono impietosi oltrechè ingiustamente crudeli. Accanto a lui avresti brillato di luce riflessa e continuamente ti saresti chiesta se ciò che andavi conquistando era davvero frutto del tuo talento o solo merito del suo cognome, probabilmente avresti trascorso metà della tua vita ad interrogarti e l’altra metà a cercare d’eguagliarlo.
Baltimora, tu sei unica come il tuo nome.
LA DONNA VELATA DI NERO
Ad ogni buon conto, all’epoca in cui si svolse questo dialogo, il divino Rudy era già morto da un po di anni ma non la sua leggenda che continuava a vivere e ad espandersi.
Mi riusciva difficile pensarlo come mio padre, per lui provavo solo una distaccata curiosità scevra dal rancore ma lontana dall’affetto: un immagine dinamica su un telo cinematografico.
A mia madre, invece, fui sempre grata di non avermi imposto nessun’altro surrogato.
Fu poco dopo la sua morte che ricevetti la visita di una giovane italiana, Irene Negri, che mi mostrò una lettera, una scrittura privata dove, al primo sguardo, e senza ombra di dubbio, riconobbi la grafia ordinata e la firma svolazzante di mia madre che s’impegnava a versare, alla signora Camille Negri, una certa somma di denaro come compenso all’impegno di depositare sulla tomba di Rodolfo Valentino, ogni 23 di Agosto, in ricorrenza dell’anniversario della sua morte, un sontuoso bouquet di 75 rose di colore rosso vivo, in una tonalità compatta e priva di sfumature.
Camille Negri, mi spiegò la giovane donna, era sua mamma, che non avendo quell’anno ricevuto il consueto, puntualissimo mandato per la commissione, aveva comunque provveduto di sua iniziativa ad ottemperare all’incarico, immaginando che questa defezione non fosse causata una semplice dimenticanza ma, più verosimilmente, da una sopravvenuta impossibilità della signora Eloisa.
Irene precisò che non era lì per esiger denaro ma, piuttosto, per rassicurarla che anche quel 23 di Agosto tutto era stato puntualmente eseguito nelle modalità stabilite.
Quali erano queste modalità?
Ad ogni anniversario della morte di Rodolfo Valentino, Camille, velata di nero doveva recarsi a depositare un sontuoso fascio di rose rosse sulla sua tomba.
Era Camille Negri, dunque, la misteriosa donna velata di cui si era tentato invano di svelare l’identità.
E quella leggenda era nata da una notte d’amore.
Ora che mia madre era morta spettava a me continuare a perpetrala.
Ogni 23 di Agosto, sempre, ci sarebbe stata una donna velata di nero a deporre sulla tomba di mio padre, Rodolfo Valentino, un fastoso bouquet di rose di colore rosso vivo, in una tonalità compatta e priva di sfumature.