Sentiva ora freddo, donna Laura, nel negligé di pizzo francese indossato quella notte per cercare d’irretire il fantasma sonnambulo di don Alfonso Villadora, suo defunto consorte.
Per prevenire la possibilità che lui potesse continuare a tradirla anche nell’altro mondo, si era adattata ad un abbigliamento notturno da cocotte, disinibita e volitivamente emancipata.
E quella notte il fantasma di don Alfonso si era palesato, come d’abitudine, ai piedi del talamo nuziale, preannunciato dall’inconfondibile aroma di sigaro e circonfuso da una tiepida aura.
Donna Laura lo attendeva tremando di freddo e di desiderio sopra le coltri, vestita solo di quella sottile filigrana di ragno, sfidando l’umido della notte e le correnti inopportune che filtravano dagli infissi mai restaurati.
Lui la guardava mentre lei si esibiva nelle arti acquisite postume di spogliarellista e femme fatale.
Era questo il loro gioco.
Avevano provato a toccarsi per cercare di trarre conforto da quello che la immatura dipartita di lui poteva ancora concedere, ma la materia e l’impalpabilità non coincidevano.
Si penetravano oltrepassandosi, senza trovare barriere da infrangere.
Inutilmente don Alfonso aveva cercato di adempiere ai suoi doveri maritali.
Le scivolava sopra come un soffio di aria mentre, invano, lei tentava di trattenerlo.
Donna Laura, che era sempre stata timida col marito in vita, tollerandone i tradimenti pur che sessualmente si acquietasse, ora invece provava rimorso e rabbia per non essere stata più disponibile nei suoi confronti.
Si sentiva in balia di una sorta di rivalsa dei sensi che la pervadeva nel presente, come una esigenza primaria, insopprimibile ed ossessiva.
Ora che era morto esplodeva l’esigenza sessuale di potergli dare ciò che da vivo gli aveva negato.
Ora che lui era prigioniero di un mondo impenetrabile, lei gli si offriva impudica esibendosi, sfacciata ed eccitante, in un modo che con lui, vivo, mai era stata.
Si concedeva, femmina appassionata e disperata, nella dolorosa impotenza di un desiderio ormai irrealizzabile.
Capiva, adesso, la devastante sofferenza che gli aveva inflitto con i suoi veti.
Mal di testa ed ipersensibilità, erano gli alibi con i quali si negava.
I tenui amplessi, consumati al buio, senza alcuna partecipazione emotiva, mentre contava i minuti che l’avrebbero restituita alla solitudine del proprio corpo, avevano contribuito a far si che la virilità di don Alfonso cercasse altrove i necessari appagamenti.
Seppur profondamente l’amava, desiderandola con tutto il suo vigore di uomo sano ed innamorato.
E mai avrebbe infranto i voti di fedeltà coniugale se solo lei si fosse resa più disponibile.
Allieva. E non censore.
Accettandolo come maestro, lui l’avrebbe introdotta nei mondi incantati dell’eros.
Le avrebbe insegnato la sapienza acquisita nella sua prerogativa di maschio, affinché lei potesse farla sua.
Alimentarla per condividerla.
Ma era refrattaria, donna Laura, a questo tipo d’insegnamento.
Cercava di sbrigare in fretta i doveri coniugali tanto quanto lui, invece, cercava di prolungarli.
E non che don Alfonso fosse uomo da preliminari.
Solo non si arrendeva facilmente, soprattutto laddove era sicuro di avere competenza.
Ma quella moglie a tenuta stagna, dopo reiterati e vani tentativi, lo aveva consolidato nella certezza di una reale inguaribile frigidità.
S’immedesimò nell’umiliazione di lei di non potergli dare ciò di cui abbisognava, non per sadismo ma per impedimento dei sensi.
E questo pensiero mitigò i suoi ardori.
La lasciò in pace, se non per quei pochi fugaci momenti in cui gli sembrava pur giusto farle sentire che continuava a desiderarla.
Che insieme a lei avrebbe voluto perdersi in quelle voluttà, sentimentali e carnali, che solo l’amore vero può far provare.
Se solo glielo avesse permesso.
Ma lei gli si concedeva come una santa al martirio, rassegnata a quella profanazione.
Alla fine, tutto questo, lo fece desistere dai suoi propositi sessuali nei  suoi confronti.
Senza però mai sminuirne l’amore.
Era l’unica che amava davvero.
Le altre non contavano nulla.
Esplicavano solo a quella funzione a cui lei non poteva adempiere.
Donna Laura tutto questo lo aveva capito.
Pur senza mai parlarne.
Che solo l’argomento l’avrebbe traumatizzata.
Tollerava i tradimenti come unica soluzione possibile alla sua inadeguatezza sessuale.
Tradimenti che, seppur fatti con discrezione, alla fine avevano consolidato la fama di don Alfonso Villadora d’ incorreggibile tomber de femmes.
E posto sul capo di lei l’aureola di una madonna, tollerante per eccesso d’amore.
Col tempo, lo scopo iniziale per cui ci si era immessi su quel camino, si era andato smarrendo.
Don Alfonso aveva preso gusto a quei giochi proibiti, ma necessari all’equilibrio matrimoniale.
All’inizio il suo campo d’azione era stato discretissimo.
Espletava le sue scappatelle fuori città, e sotto l’oppressione d’indicibili rimorsi.
Per inconscio desiderio chiamava sovente col nome di Laura le sue amanti.
Causando danni irreparabili perché non tutte erano disposte a perdonargli la distrazione.
Erano quelli i tempi in cui ancora sperava in un cedimento della moglie.
Una guarigione miracolosa, che mai avvenne finché lui fu in vita.
Alla fine, disilluso, sempre più andò sfacciatamente penetrando i suoi territori di conquista fin dentro le mura cittadine, e senza porsi gli iniziali problemi di discrezione.
Le donne gli si offrivano.
Gli uomini lo invidiavano.
La moglie tollerava.
E la stampa ulteriormente alimentò quella leggenda da Casanova quando l’infarto lo sorprese nel letto di un’attricetta di teatro.
Signorina tanto seducente quanto chiacchierata.
E dalle mille risorse.
Che non si perse d’animo alla vista del corpo inerte di don Alfonso, che giaceva come placidamente addormentato e con una espressione soddisfatta, tra le coltri arruffate dalla battaglia notturna ma, strategicamente, se ne servì per farsene provvidenziale pubblicità.
Il clamore che suscitò questa morte adultera accrebbe la fama della starlet ed enormemente rinvigorì il mito di Villadora, morto nel letto di una venticinquenne, stroncato da un amplesso celebrato con troppa foga.
Un maschio vero. Sussurravano le donne al suo funerale. Più d’una asciugandosi di nascosto le lacrime.
Un figlio di puttana. Dicevano gli uomini, dandosi di gomito. Che pur ha avuto una bella morte.
Alfonso, singhiozzava disperata, l’algida donna Laura, sentendosi questa volta davvero tradita.
Lo invocava così tutte le notti finché lui le apparve, annunciato dal profumo di sigaro e nel tepore di quella sua aura limbica, ai piedi del letto matrimoniale.
In attesa. Come sempre aveva fatto, quando era vivo.
E lei gli si era subito avventata addosso con ingordigia di femmina affamata.
Di una lupa in calore che cercava di ghermire quel fumo tiepido, con fattezze d’uomo, che sostava ai piedi del letto, ma che mai più avrebbe potuto condividere quell’invito per tutta la vita agognato.
Non per sua volontà, che ancora ardentemente il suo spirito la desiderava, ma per una indiscutibile imposizione della morte.
Potevano solo guardarsi.
La donna di carne e l’uomo di luce esistevano su paralleli diversi.
Della vita.
Della morte.
Inconciliabili, soprattutto per le faccende di sesso.
Per questo donna Laura aveva iniziato a sperimentare le strade della concupiscenza.
Per adescare lo spirito del marito.
Irretirlo, in quel vortice di risvegliata sensualità che in vita gli aveva negato.
Darsi a lui, completamente e senza inibizioni.
Urlava, lasciva e scarmigliata, la sua frustrazione come fosse un orgasmo.
Lei che un orgasmo mai lo aveva provato.
Si spogliava offrendosi sfacciata al suo sguardo.
Si accarezzava fino a raggiungere il languore della lussuria.
Le mani di lui si protendevano verso i seni.
Le sfioravano il ventre.
Ma era solo un abbaglio di tiepida luce.
Non riusciva ad afferrarla. A stringerla.
Non poteva toccarla.
Così, donna Laura si esibiva in licenziosi spettacoli tutte le notti che lui andava a trovarla.
Per trattenerlo ai piedi del letto, dal momento che dentro di lei non sarebbe stato più possibile farlo, cercava d’intrappolarlo nel gioco psicologico dell’esibizionista.
Aveva imparato l’arte estroversa delle spogliarelliste.
Inventava peccaminosi giochi di seduzione.
Gli sussurrava le più sconce fantasie.
Lo irretiva con l’esposta lussuria dell’autoerotismo.
Ed ogni notte lui sempre più si consumava nella disperazione impotente dell’eunuco.
Nello svilimento cosciente della sua inanità.
La morte adultera aveva contribuito all’estensione della leggenda virile di don Alfonso Villadora.
Le strategie seduttive di donna Laura lo avevano, invece, trasformato in un voyeur.