Il locale è semivuoto, fumoso. Un palco appena rialzato sul fondo, tavoli rotondi, alcune ragazze stanno ballando al suono di una pianola.

Ballate, ragazze, ballate al suono di queste mie dita! Non sentite come volano sui tasti, non vedete come trema il bicchiere di whisky appoggiato sopra la pianola, quali onde bionde si sollevano tra le sue pareti di cristallo?

«Sei ubriaco, Wes» mi dice Cindy appoggiando i gomiti sul legno scuro.
«Certo che sono ubriaco! Perché, tu non lo sei?» ribatto.
Lei spalanca gli occhioni generosamente decorati a mascara.
«Dio mio! Certo che no!».
«Allora sei proprio mal presa, ragazza mia!».
E rido della solita battuta mentre lei mi provoca facendo ballonzolare la sua quarta abbondante sul bordo della scollatura.
«Attenta che tra poco il tuo abitino di pailettes esplode!» le dico, per stuzzicarla.
«Ti piacerebbe, eh?» e se ne va sculettando sul palco, dove riprende un improbabile balletto insieme alle sue due compagne, come lei disoccupate per la scarsità di clienti in vena di spendere per una entreneuse.

Serata grama, ma io ne approfitto. Faccio un gesto a Tom, il cameriere in mezze maniche che si sta guardando intorno, e gli strizzo l’occhio. Lui capisce al volo, sparisce dietro alla tenda che divide la sala dal retro e ritorna con una sacca di tela. Si avvicina circospetto, tira fuori la cornetta e attende che gli dia il tempo. Bravo ragazzo, Tom, anche se è di colore. Ma proprio nero, non latinos, e neanche centroamericano. Africano purosangue, solo lui sa di dove viene la sua fottuta famiglia, ma non lo dice. Anzi, lo dice, ma ogni volta è una storia diversa.
Attacco It’s Mighty Crazy, di Lightnin’ Slim e lui mi viene dietro da dio. Le ragazze smettono di ballare e si limitano a muoversi a ritmo, gli avventori si girano verso di noi battendo il tempo per terra.
Io per un attimo ritorno sobrio, ma con un angolo della mia mente conto i secondi… venti, trenta, quaranta…

Jack, il padrone di questo buco di merda mi è già di fianco. Non osa interromperci per non suscitare le proteste di qualcuno, ma dallo sguardo capisco che vorrebbe tanto farmi il culo. Beh, poi: per ora suono.
Arriviamo alla fine e qualcuno persino applaude. Tom posa la cornetta nel sacco e sparisce. Sembra Flash Gordon, un Flash Gordon di colore e vestito da cameriere, ma è un fulmine.
Jack ha le mani sui fianchi.
«Cosa cazzo credi di fare, Wes?» mi dice.
Allargo le braccia.
«E dai, Jack, finora non c’è un cazzo di nessuno! Vivacizzo il locale».
«È un Dancing, brutto pezzo di merda! Lo sai cosa c’è scritto fuori? Dancing! Qui si balla, le ragazze muovono il culo, io le pago per questo. E tu ti pago per suonare musica da ballo, non questa merda da negri!».
«Ok, capo, ricevuto!»» dico, per ammansirlo «adesso ti suono un bel Charleston 1925. Contento?».
E vado con il pezzo di James P. Johnson. Lui mi studia un po’, poi vede le ragazze che partono, sia pure con qualche difficoltà, e abbandona il campo, non senza un “ma vaffanculo, và” che è il suo marchio di fabbrica.

La soddisfazione per la mia piccola vittoria dura meno del bicchiere di whisky, e man mano che suono pesto sempre più forte sui tasti, tanto che il suono del vecchio strumento ne esce distorto e tutti mi guardano mentre piego la testa sulla tastiera. Finisco con un gran colpo e il silenzio che segue sembra un boato. Nessuno parla, anche Jack capisce il momento e fa finta di niente.
Jane mi si avvicina e tira fuori dal reggiseno un fazzolettino con cui mi asciuga la lacrima che mi riga il volto. Sorride, ho risvegliato il suo istinto materno.
«Grazie Jane» le dico, accennando al sorriso più bastardo che riesco a trovare «scopiamo dopo?».
Lei cerca di capire se sto dicendo sul serio, poi mi dà una pacca sulla testa.
«Sei proprio uno stronzo!» mi dice, ritornando sul palco. Ma ride.

Adesso qualche cliente sta arrivando. Jack prende il suo posto al banco e Tom comincia a girare. Le ragazze accennano a qualche passetto più convinte, mentre io cerco di assecondarle. Stiamo tutti lavorando, che diamine!
Uno dei clienti alza il suo Negroni e fa un gesto di invito a Cindy, che non se lo fa dire due volte e arriva al tavolo. Parlano qualche istante, poi lui fa un cenno a Tom che prontamente arriva con lo champagne nel cestello del ghiaccio. Californiano, naturalmente, questo non è un locale da Moet&Chandon. Un’altra ragazza viene invitata a un tavolo. Sul palco è rimasta solo Jane. Attacco Burning Desire e lei coscienziosamente inizia ad arrotolarsi intorno al palo della lap dance, cercando di mettere in mostra il più possibile nelle sue giravolte. Perché senza le mance e le percentuali sui liquori la paga è proprio da schifo, e alle ragazze è proibito accompagnarsi con i clienti, non finché il locale è aperto, e chiude alle quattro del mattino, troppo tardi per concludere una serata tra le lenzuola. Al massimo può scapparci un pompino, come extra, poco guadagno anche per un posto come El Paso che è quasi il buco del culo del mondo.

È arrivata l’ora, Jack e Tom stanno mettendo fuori i clienti ubriachi e ripuliti del poco che potevano spendere. Fuori, lungo le strade, pattuglie di polizia mezzo addormentate guarderanno passare i cittadini ubriachi alla guida delle loro Chrysler, Volkswagen e Ford. Senza fermare nessuno, perché domani dovranno andare dal droghiere o dal barbiere anche loro, e come faranno se li sbattono tutti in galera? Le ballerine si sono cambiate e struccate. Vestite così sembrano quello che sono: ragazze qualsiasi con una storia alle spalle. Ne ho viste tante passare da locali come questo: buttate in mezzo alla strada da genitori separati a cui i figli rompevano il cazzo, oppure scappate di casa, o anche ex drogate uscite di galera. Tutte che non sapevano come sbarcare il lunario e non erano ancora arrivate al punto di mettersi a battere in strada. Ma l’avrebbero fatto, oh se lo avrebbero fatto!

Jane esce per ultima e vedendomi ancora seduto al piano posa la borsa sul legno. La guardo, una borsa di tela marrone con delle perline e strani disegni che non riesco a decifrare.
«Non vai a casa, Wes?» mi chiede.
«Aspettavo solo te, dolcezza» le rispondo.
«E se ti dicessi di sì, cosa faresti?».
Sfodero il mio più bel sorriso.
«Ti scoperei fino a farti morire, bambina!».
Stavolta scoppia davvero in una grossa risata.
«Ce la fai almeno ad arrivare a casa?».
«Uh… spero di sì» e in effetti qualche perplessità comincio ad averla.
«Dai, andiamo insieme, così di due ne facciamo uno: tu guidi e io ti dico dove andare».
Mi alzo e chiudo la ribalta del piano, che sbatte con un colpo secco che mi fa sobbalzare. Tom mi guarda di sottecchi, ghignando. Faccio due passi, ma barcollo e devo appoggiarmi a Jane che non è tanto più sobria di me ma riesce a sostenermi.
«Senti dolcezza» le dico «credo che per quella scopata sia meglio rimandare a domani…».
«Questa l’ho già sentita» risponde, pronta.
«Ah, sì? E quando?».
«Ieri, e avant’ieri e…».
Tutti scoppiano a ridere. Io faccio finta di essere offeso ed esco dal locale, sempre appoggiandomi a lei. Raggiungiamo la mia macchina e mi mette sul sedile del passeggero, poi fa il giro, sale e accende il motore. Brava ragazza, se non ti avessi già sposato ti sposerei!.

Fuori le luci del Dancing Paradise si spengono ad una ad una.