Fa freddo.
Il muretto su cui mi sono seduto è basso, di cemento, rovinato dagli anni e dalle intemperie, e divide la stradina da cui sono arrivato dal prato bruciato dal gelo.
Oltre ad esso c’è una casa dipinta di un pallido rosa, con le persiane chiuse. Più in là si allarga la valle. In cielo nuvole grigie.
Ho posato le borse vicino ai miei piedi, ancora piene di roba. Qualcosa ho venduto, ma poco, non c’è molta gente in giro di questa stagione. Eppure a me piace girare per i paesi, non c’è la frenesia della città e gli spazi sono più ampi, dilatati. Se chiudo gli occhi a volte mi sembra di essere ritornato a casa.
I ricordi del mio paese sono ricordi della mia gioventù, perché l’ho abbandonato prima di diventare un uomo. Forse è per questo che sono ricordi felici, ai bambini basta poco per esserlo: qualche gioco, dei compagni, lo spazio per correre, un pallone, poco importa se fatto di stracci.
Correvo, come correvo! Per i sentieri, i prati, la savana. Scalzo, poi con vecchie ciabatte consumate. Correvo per gioco, poi per sport, quella cosa strana che fa sì che tu faccia le cose che ti piacciono per dovere, in cambio di qualcosa. Ma il piacere era troppo grande, ed io volavo.
Mille, cinquemila, diecimila metri, ero sempre il più veloce di tutti, così il maestro mi segnalò alle autorità, e un giorno venne a prendermi un’automobile e mi portò nel capoluogo. Ricordo che durante il viaggio mi guardavo intorno e ogni cosa mi stupiva: case di cemento che si alzavano per più piani, strade asfaltate. Antenne, tante antenne su tutti i tetti.
Arrivammo in una caserma, dove mi misero insieme ad altri ragazzi, raccolti come me nei villaggi. Ci infilarono sotto una doccia e ci diedero dei vestiti nuovi, tutti uguali. Io sotto il getto d’acqua credevo di annegare, non avevo mai fatto una doccia prima di allora, ma nessuno mi prese in giro.
Il giorno dopo ci caricarono su di un paio di camion e ci portarono in una grande costruzione di cemento, con un rettangolo d’erba verde al centro e un anello rosso intorno. Rimasi stupito nel vedere il colore di quell’erba: non avevo mai visto un verde così intenso in vita mia.
Un uomo in tuta ci venne incontro. Aveva un quaderno in mano e anche se non l’avevamo mai visto lui sapeva tutto di noi. Ci fece un discorso usando parole strane, come ‘onore’, ‘impegno’, ‘sport’ e ‘la nostra grande nazione’, poi ci divise in gruppetti, ognuno dei quali era seguito da un altro uomo con la tuta. MI disse di correre. Lo guardai senza capire.
«Perché?» chiesi.
«Non hai sentito l’istruttore?» rispose, sgarbato «corri e basta!».
Andai in pista, così si chiamava l’anello rosso, ma subito lui mi fermò.
«No, non così! Mettiti le scarpe!» disse.
Io non avevo scarpe, in casa mia ce n’era un unico paio, che mio padre aveva lasciato quando se n’era andato via. Erano belle, nere, sempre lucide, e le usavamo quando qualcuno doveva andare dal dottore o in città. Per pascolare le capre e proteggere i piedi dalle spine della savana usavamo ciabatte con il fondo di legno, ma per il resto eravamo sempre scalzi.
«Non puoi correre così» mi disse ancora l’uomo «non siamo dei selvaggi!» e andò via, tornando poco dopo con uno strano paio di scarpe. Erano di tela bianca, con la suola di gomma.
«Dovrebbero andarti bene» disse, porgendomele.
Me le infilai e le allacciai in qualche modo. Sentivo che mi stringevano in punta.
Ci misero in pista in un gruppo di una ventina di ragazzi e ci dissero di correre. Di correre e basta. Ci guardammo in faccia e partimmo. Subito fui davanti agli altri, ma dopo il primo giro i piedi cominciarono a farmi un male tremendo. Gli istruttori ci guardavano. Io strinsi i denti e andai avanti, ma dopo un altro paio di giri dovetti fermarmi a bordo pista, mentre gli altri ragazzi continuavano a correre, correre.
Mi guardai le scarpe e vidi che due grosse macchie di sangue si erano allargate su entrambe le punte, macchiando la stoffa. Ebbi paura. Me le tolsi e rimasi lì, con le scarpe in mano senza sapere cosa fare. Intanto avevano fermato i corridori, preso i nomi di quelli che erano arrivati per primi, messo da parte gli altri. Lo stesso stava accadendo con i ragazzi che erano stati scelti per gli altri sport.
Mi avvicinai con il capo chino al gruppetto degli esclusi e porsi le scarpe all’istruttore.
Questi le guardò, le prese con due dita e le buttò da parte, ma non mi punì.
Al termine della giornata la stessa vettura che mi aveva portato alla caserma mi ricondusse al villaggio.
Questi paesi sono tutti uguali. Diversi per chi ci abita, certo, ma per chi come me li gira tutti finiscono per confondersi: un centro di case vecchie, di solito raggruppate intorno ad una strada che l’attraversa, altre casette che si diradano via via, le villette costruite fuori, nei posti migliori e disabitate quasi tutto l’anno. La chiesa e poco più in là il cimitero. Anche le persone che li abitano sono sempre le stesse, perlopiù vecchii.
La casa che vedo in fondo alla discesa me la ricordo bene: ha un pollaio sul retro con una decina di galline. Mi è rimasta in mente perché qualche anno fa mi ci ero fermato davanti, al pollaio, intendo, e per un attimo… Poi mi sono detto: “cosa ci faccio con un pollo?”, così ho lasciato perdere e ho bussato alla porta.
E’ venuta ad aprirmi una donna anziana, un po’ curva. Gli mostro la mia roba, la solita: calze, magliette, fazzoletti di carta, e lei mi fa segno che non le serve niente. Però ho visto nei suoi occhi un barlume d’interesse, e allora ho insistito: «Dai, compra qualcosa, ho fame…».
Non mi vergogno a dire così, un po’ perché fa parte del gioco e un po’ perché è vero.
Allora lei mi dice: «Guarda, di soldi non ne ho, ma se hai fame… Aspetta lì».
Rientra in casa, lasciando la porta aperta, ma io non la seguo, so che alla gente non fa piacere che entri. Ritorna con una grossa pagnotta e un pezzo di formaggio.
«Tieni» mi dice «mangiala alla mia salute».
La ringrazio e mi faccio indietro, per lasciarla chiudere. Rigiro il pane tra le mani: l’avevo osservata sopra le sue spalle mentre apriva il frigorifero e avevo visto che era mezzo vuoto. Non aveva molto di più di quello che mi ha dato. Ogni volta che ci ripenso mi vengono le lacrime agli occhi, così quando passo di qui vengo sempre a salutarla e le chiedo se ha bisogno di qualcosa. Lei mi ringrazia e mi dice che non le serve niente. Vorrei poterle dare qualcosa in cambio della sua gentilezza, ma sono contento di vedere almeno che sta bene.
Ho lasciato il mio villaggio perché lo facevano tutti. «Arriva la guerra», dicevano. Io la guerra non l’ho mai vista, per fortuna, ma l’odio sì: da un giorno all’altro Hutu e Tutsi avevano preso a guardarsi con ferocia, e non riuscivo a capire perché. I miei amici erano di entrambi le etnie, ma ora i genitori ci costringevano a restare separati, così che ragazzi che erano sempre stati insieme cominciarono a sfuggirsi.
Mi dicevano che se aspettavo la guerra sarebbe stato troppo tardi, così sono partito anche io verso nord, attraverso l’Uganda, il Sudan, la Libia. Ho imparato presto ad evitare i militari e le strade troppo frequentate, preferendo cercare passaggi dai contadini o camminare a piedi. Per i profughi che provenivano dalle città era più difficile, ma io ero abituato ad arrangiarmi nella savana, ed arrivare al mare fu solo questione di tempo.
Preferisco dimenticare come mi procurai i soldi per il viaggio in mare, ma una volta che fui sul barcone la fortuna non mi abbandonò: trovammo tempo buono e riuscimmo a sbarcare sulla costa, dove trovai degli uomini ad attenderci: erano italiani che avevano bisogno di braccianti per la raccolta della frutta, un lavoro pesante, pagato pochissimo, ma a noi bastava sopravvivere per andare al nord.
Non tutti ci siamo riusciti, ma come tanti rivoli d’acqua la maggior parte di noi è rotolata verso il Settentrione d’Italia, poi…
Poi chi aveva parenti o amici ha continuato verso la Francia o la Germania, altri come me si sono fermati cercando una casa e un lavoro. Qualcuno ha messo persino su famiglia, tanti si sono lasciati prendere dalla malavita e spesso hanno fatto una brutta fine. Qui la polizia ti lascia vivere, non ti ammazza di botte come in Libia o in Sudan, ma se esageri o sei sfortunato finisce che ti caricano su un aereo e ti rimandano a casa, anzi, in un campo, e lì dicono che finisci male. Oppure se calpesti i piedi a qualcuno della mala ti tagliano la gola e ti buttano in mare, o in fondo a un fosso, e ciao.
Fa freddo, seduto su questo muretto. Mi alzo, mi carico in spalla le borse e riprendo il giro. Devo vendere qualcosa prima di sera, prima che arrivi la corriera che mi riporterà in città. Fa troppo freddo in questa stagione per dormire quassù, all’aperto.
Lontano, sulla vallata, nuvole scure stanno coprendo il cielo. Vengono da nord, sospinte dal vento. Non pioverà, ma forse qualcuno comprerà lo stesso un ombrello, e magari nel bar troverò a chi vendere due paia di calze. Alla peggio il padrone mi offrirà un caffè, come fa sempre.
Brava gente.