Tanti pensatori, studiosi, hanno cercato di definire la nostra società ancor prima che esistesse. Hanno immaginato e previsto aspetti che in qualche modo si sono concretizzati nel tempo: come la pericolosa seduzione dei media, la cultura di massa, il Villaggio Globale, il deprimente regno dell’uomo medio.
Di queste teorie e previsioni ho voluto fare un excursus, affascinata dalla incredibile capacità di comprendere che ha l’uomo, di focalizzare persino l’imponderabile, di approfondire, ricercare e appunto, definire. Chi ha avuto ragione?
Molti sociologi, opinionisti, scrittori, tecnici della comunicazione, hanno contribuito ad inquadrare quella che un tempo chiamavamo società dell’informazione e di formularne una definizione. Alcuni di questi studiosi sono stati addirittura in grado, pubblicando le loro teorie, di indirizzare l’intero mondo globalizzato verso una specifica strada, spesso senza neanche rendersene conto.
Questo è sicuramente il caso di Claude Shannon, che nel 1949 sviluppò la sua Teoria matematica dell’informazione, la quale privilegiando la quantità di informazione (i bit) trasmessa, a discapito del contenuto, costituirà la base della concezione di comunicazione comunemente accettata, che tende a considerare il ricevente soltanto come clone dell’emittente.
Di qui la smania del bene-notizia, la nascita del feticismo informazionale condannato da Henri LeFebvre, lo svilupparsi di grandi centri urbani completamente auto-pubblicitari, che si rendono principali vittime di se stessi, tramite il sovraccarico di processi comunicativi, fino a manifestare la necessità di istituzioni in grado di regolarne i flussi.
Theodor Wiesengrund Adorno, membro negli anni ‘40 della Scuola di Francoforte, è stato tra i primi a condurre un’aspra critica nei confronti dell’industria culturale, nata con l’avvento dei potenti mezzi di comunicazione di massa. Il presupposto dal quale parte il sociologo è che questi mass media non sono soltanto dei contenitori da riempire con i significati che si intende trasmettere, ma sono essi stessi ideologia, perché è intrinseco nella loro natura veicolare la concezione del mondo più comunemente accettata, spingendo alla omologazione, istupidendo gli animi, eliminando la capacità critica.
Tra le tante voci che si sono alzate a denunciare il pericoloso rischio di monopoli di informazione, ricordiamo quella di Harold Innis, che, estremizzando la concezione di McLuhan per cui il medium è il messaggio, arriva a concepire una visione secondo la quale le diverse tecnologie di comunicazione determinerebbero le forme di potere e, vista in quest’ottica, la società dell’informazione si presenta come l’accentratrice per antonomasia.
Villaggio Globale
Più ottimista è l’analisi di Daniel Bell, che invece prospetta una nuova armonia all’interno della società postindustriale grazie alla centralità assunta in essa dagli studiosi, dalle Università, dagli scienziati, dalla ricerca in genere. Secondo Bell si tratterebbe della fine del businessman e della nascita di strutture meno gerarchiche in ambito professionale, come impone il lavoro di équipe.
Famosissima è l’ipotesi del citato Marshall McLuhan, secondo cui l’era della trasmissione elettronica coinciderebbe con il ritorno ad una sorta di nuovo tribalismo.
Nel suo primo best seller, La galassia Guttenberg (1962), McLuhan ha coniato il termine Villaggio Globale, forzando volutamente il linguaggio, per meglio esprimere una situazione originale e faticosamente descrivibile. Il mondo, grazie alle invenzioni tecnologiche, è diventato piccolissimo ed agevole da percorrere, rendendoci tutti prossimi tra noi e rispetto ad eventi che stanno accadendo dall’altra parte del globo.
McLuhan sottolinea anche la difficoltà che l’uomo moderno, intrinsecamente ancora carico del suo passato e di quello della società in cui ha vissuto, incontrerà nel rapportarsi con un mondo così rivoluzionato.
Due visioni a confronto: Orwell e Huxley
Orwell ed Aldous Huxley hanno tracciato, nei loro best-seller, due differenti modelli di evoluzione sociale umana, nel contesto di un mondo caratterizzato dall’invasività dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. Secondo Orwell, in 1984 , il Grande Fratello, che tutto controlla e dirige, lascia ben poco spazio alla scelta individuale, la sua natura è apertamente dittatrice, senza ipocrisie e senza ammiccamenti.
Differente è la visione di Huxley in sociologi, Ritorno al mondo nuovo, dove i mass media contribuiscono all’allargamento di una comunità pacifica di democrazie e si rendono garanti di un mondo sicuro, libero e prospero. Nel mondo di Huxley si ha a che fare con un Soft Power, che consiste nella tecnica di suscitare nell’altro un’aspirazione precisa e predeterminata, perseguendo i propri obbiettivi attraverso la seduzione.
Neil Postman, nella premessa a Divertirsi da morire, ha messo a confronto proprio queste due visioni, ambedue importanti perché si sono insinuate profondamente nell’immaginario collettivo dell’uomo moderno:
“Orwell immagina che saremo sopraffatti da un dittatore. Nella visione di Huxley non sarà il Grande Fratello a toglierci l’autonomia, la cultura e la storia. La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare.
Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schia- vi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca ricca solo di sensazioni e di bambinate. […] In breve, Orwell temeva che saremmo stati distrutti da ciò che odiamo, Huxley, da ciò che amiamo.”
l’uomo medio, post-modernità, iperealtà
Il conte francese Alexis de Tocqueville, grande pensatore del XIX secolo, nel suo La democrazia in America tra democrazie liberali e democrazie illiberali, precorse i tempi sviluppando una lucida analisi riguardo la natura intrinseca del regime democratico. Lo studioso avverte che la connessione tra democrazia e libertà non deve essere data per certa, non deve essere considerata in modo semplicistico. Infatti la democrazia potrebbe rivelarsi la causa dello sviluppo di una cultura di massa, divenendo così mediocrazia, ovvero il diffondersi della cultura dell’uomo medio e della mediocrità.
Tocqueville ci presenta comunque anche la soluzione per evitare di incappare in certe maglie: si tratta dei checks and balancies (controlli bilanciati) tra il potere esecutivo, legislativo e giudiziario, aventi lo scopo di una partecipazione dialettica e non, come spesso capita, di un vicendevole annullamento. La stessa funzionalità avrebbe ovviamente anche un decentramento amministrativo.
Anche Jean-Francois Lyotard, coniando il termine post-moderno nel suo saggio La condition postmoderne (1979), dà il via ad una vera e propria corrente di pensiero, che conta trai suoi continuatori Jean Baudrillard, Jacques Deridda, Michel Foucault e Gianni Vattimo. La fine dei vecchi concetti di storia, dei miti, dei vecchi sistemi interpretativi in generale, insinuerebbe nell’uomo di oggi l’incredulità verso la metanarrativa, aprendo le porte soltanto a verità pragmatiche che si riferiscono a settori ben limitati, a tutto discapito delle concezioni unitarie e complesse del mondo. La scienza viene erroneamente considerata la sola via alla conoscenza assoluta e all’interpretazione, mentre è in grado di veicolare soltanto opinioni.
Jean Baudrillard applica questa visione soprattutto al mondo dei media, i quali, avendo una diffusione sempre più capillare nella vita e nelle rappresentazioni mentali dell’uomo moderno, contribuiscono a catapultarlo in una realtà ambigua e scevra di significato: la iperealtà.
Analogamente Manuel Castells sostiene:
“I luoghi vengono svuotati del proprio significato culturale, storico e geografico e reintegrati in reti funzionali, o in collage di immagini, inducendo uno spazio dei flussi che sostituisce lo spazio dei luoghi. Il tempo viene cancellato nel nuovo sistema di comunicazione, nel momento in cui passato, presente e futuro possono essere programmati per interagire reciprocamente nello stesso messaggio. Lo spazio dei flussi e il tempo senza tempo sono le fondazioni materiali di una nuova cultura che trascende e include la diversità dei sistemi di rappresentazione storicamente trasmessi: la cultura della virtualità e reale in cui far credere già credere in potenza”
La stessa Guerra del Golfo non sarebbe stata altro che una creazione dei media, perché concepiamo come assoluta verità fatti soltanto ciò che i mezzi di comunicazione di massa hanno rappresentato di questo conflitto, ovviamente strumentalizzandolo Direttamente o implicitamente, in maniera più o meno riconoscibile, molte voci in passato hanno posto l’accento sul fatto che la fine del libero arbitrio e l’inizio della società massificata sono condizioni intrinsecamente congiunte alla rivoluzione tecnologica.
Certo è che il rischio che superpotenze politiche e/o commerciali possano esercitare dei monopoli culturali non mi pare sia mai stato un allarmismo immotivato.
La visione ottimistica di Negroponte
Del tutto estranea a qualsiasi inquietudine, ottimistica per eccellenza, è sempre stata invece la visione di Nicholas Negroponte, il quale, oltre a sostenere che la tecnologia, in particolare Internet, ci avrebbe avvicinati tutti, armonizzando il mondo, suddivideva la storia della società moderna in più ere: quella industriale, quella post-industriale (o dell’informazione) e quella della post-informazione (che saremmo noi). La nostra epoca sarebbe caratterizzata dalla scomparsa dei classici legami con i luoghi fisici e da una comunicazione individuale e finalizzata, caratterizzata dalla sostituzione delle tecnologie push con le tecnologie pull. “Io significa informazioni ed eventi che non hanno alcun valore demografico o statistico”
Luciano Gallino nel suo Globalizzazione e disugualglianze ha sviluppato una ragionata analisi sulla nostra epoca, soprattutto dal punto di vista economico. È molto interessante la descrizione che egli fa delle due differenti accezioni del termine localizzazione.
Secondo la prima
“[…] localizzazione significa che per competere globalmente è necessario riuscire a soddisfare la domanda di nicchie di mercato locali sempre più numerose, differenziate e specializzate .”
Questa è sicuramente anche la visione di Negroponte, il quale addirittura, come abbiamo visto, arrivava a concepire un mercato individuale più̀ che locale.
La seconda accezione del termine invece si distanzia profondamente dalla precedente, ponendo problematiche nuove che impongono una riflessione. Localizzazione in questo caso si riferisce
“….al recupero o alla difesa delle tradizioni locali, ossia a un movimento che sia al tempo stesso sociale, culturale e politico di opposizione all’espansione mondializzante del mercato: una istituzione, una modalità di relazione, che in questa prospettiva molti ritengono, o semplicemente sentono, possa emarginare le culture nazionali e regionali o addirittura minacciarne l’esistenza. Anche di questi fili è intrecciata la stoffa di molti fondamentalismi, nazionalismi regionali, conflitti etnici che contrassegnano i primi anni del Duemila”.
Scriviamola noi la nostra definizione, a partire dall’educazione
Difficile dire chi abbia avuto ragione. A loro modo tutti questi pensatori hanno immaginato e previsto aspetti che si sono poi concretizzati: la seduzione dei media, la cultura di massa, il Villaggio Globale, l’uomo medio (o forse anche qualcosa di meno), l’anestetica non reazione ai messaggi descritta da Huxley. Basti pensare alla Syria, ai condannati che risiedono beati in Parlamento, ai ragazzi che picchino i professori in classe e mettono i video su YouTube, o senza andare troppo lontani al Casale delle Arti che dovrebbe essere già da almeno due anni una realtà e invece… Sì, me ne rendo conto, abbiamo persino superato molti infausti pronostici.
Si può ravvisare tutto e il contrario di tutto nella nostra società, e devo ammetterlo, un po’ tremo al pensiero di come verremmo definiti in futuro. Ma è davvero possibile definirci?
Il fatto è che forse è più frammentata che mai questa Società, più di quello che si vorrebbe far credere.
Siamo una composizione di molteplici diversità: agglomerati di comunità di interesse e ahimè di disinteresse, realtà estese, dove il reale e il virtuale si confondono, dove c’è chi vuole provare a fare la sua parte, anche con l’aiuto di qualcuno che magari si trova dall’altra parte di una connessione internet. Chi ancora crede nelle buone idee e cerca di farle circolare, magari con pochi mezzi, di certo con molta dedizione. C’è persino chi ancora non è connesso, perché non ha accesso alle nuove tecnologie, o semplicemente non le sa usare. C’è poi chi non sa scrivere, chi non è in grado di comunicare. E sono tanti!
Non smetterò mai di urlare al mondo quanto è importante sapersi esprimere, che i nostri figli imparino a scrivere (sul serio), a parlare, a comprendere davvero, a pensare. Tutte attività più edificanti che picchiare un insegnante mi pare…
La scuola e le famiglie dovrebbero lavorare per restituire un approccio critico alla vita.
E questo parte dalla lettura, dalla scrittura e dal confronto. Per questo è nato WriterMonkey.it
Difficile oggi guardare al bicchiere mezzo pieno? Eppure è solo guardando al bicchiere mezzo pieno – mi dico – che possiamo migliorare, noi stessi, e un passo alla volta anche il nostro mondo.
Vorrei tanto, per i nostri bambini, che smettessimo di chiederci chi abbia, o abbia avuto, ragione su di noi, e iniziassimo a scrivere una definizione migliore.