La piantina d’ortica era fiorita nell’angolo più in ombra del giardino, selvaggia e malavitosa, piena di rancore verso la vita, con un astio così tangibile che non solo le farfalle, ma anche tutti gli altri insetti disertavano quel paraggio.
Se ne stava abbarbicata in quella sua zolla di terra, sulla difensiva, con le radici contratte come pugni, pronta a contrastare chiunque osasse invadere il suo territorio.
Ma in quell’angolo solitario di giardino non ci andava mai nessuno.
Unica, tollerata presenza, era quella di un grosso ragno, tozzo e peloso, la creatura più brutta del giardino, sdegnoso e solitario quanto lei, che andava imbastendo la sua invisibile tela tra la cancellata e il muro.
Trappola e stomaco destinati a rimaner vuoti perché ubicati in questo posto da esiliati, elucubrava tetra la piantina, irridendo all’affannoso, quanto vano, lavorio del ragno.
Quel pomeriggio, però, qualche visitatore c’era, perché aveva captato rumore di passi in avvicinamento, e la conferma la ebbe quando, nel suo campo visivo, si delinearono quattro piedi, due piccoli e due grandi.
Nel dettaglio, un paio di sandalini rosa che procedevano affiancati a un paio di scarpe scure da uomo: padre e figlia.
L’uomo raccontava alla piccola i segreti del giardino, ora rivelandole il nome di un fiore ora quello di un insetto, raccontandole la fantastica esistenza di un mondo parallelo, terragno e mimetico, popolato di minuscole laboriose creature, e nelle cui profondità germogliavano, alle stesse temperature, esili radici di fiori e portentosi basamenti d’albero.
Un universo colmo d’impensabili meraviglie, a saperle vedere, puntualizzava il papà, che in un giardino sono la bellezza e il profumo dei fiori ad incantarci, ma anche questo, come tutto ciò che accade in natura, non è affatto casuale, piuttosto uno stratagemma escogitato da madre terra per distogliere l’attenzione da quel mondo minuto, ed indifeso, che pullula al suolo e alla mercé delle nostre scarpe, e garantirne la sopravvivenza.
I due dialogavano fitto fitto a pochi passi dalla scontrosa piantina, con la bimba a fare domande e l’uomo a dare risposte, sommerso da tutti quei perché che lei sparava a getto continuo.
Da quel loro intimo chiacchiericcio spesso scaturiva la risata cristallina della bambina, ed ogni volta che lei rideva la piantina scopriva una sensazione sconosciuta, un’ emozione in crescendo che la portava a desiderare, per la prima volta nella sua vita, di avere un paio di gambe, invece che radici, per poter esplorare quel mondo oltre il muro al quale appartenevano quei due.
E al quale sarebbero ritornati.
E poi lui sapeva raccontare così bene che d’improvviso quel fazzoletto di terra aveva acquisito la dimensione di un luogo incantato dove tutto era fantastico e logico insieme, e dove lei stessa, che pur sempre s’era considerata clandestina, ne faceva parte.
Più che clandestina, ignorata, questo era il termine giusto, perché mai nessuno sguardo, nessuna curiosità, nessun ohhhhhhh di meraviglia l’aveva mai benevolmente sfiorata così come accadeva, invece, per l’altezzosa, longilinea pianta di rose ibride che seduceva con i suoi colori cangianti e l’intenso profumo di donna.
Perfino la timidissima violetta, che più che a volersi mostrare cercava di nascondersi, riceveva entusiastici apprezzamenti, così come la pratolina, graziosa, ma senza altro merito se non quello di essere la copia minuta di una margherita.
Solo a lei era riservata tutta quella freddezza, quella totale indifferenza che così tanto la feriva.
Se solo avesse potuto domandare a quell’uomo, così ben addentrato nei segreti del giardino, il motivo di tanto oltraggioso disprezzo, forse avrebbe compreso e se ne sarebbe fatta una ragione.
Ben delineati nel suo campo visivo, poteva ora osservarli con più agio nei particolari: la bimba recava al braccio un cestino che conteneva un mazzolino di fiori multicolori avvolto con cura in un fazzoletto umido, un fungo carnoso e rosso, il bulbo rosato di una cipolla, e a far da contorno, lucide palline di frutta
– Dobbiamo rincasare, Emma, che la mamma ci aspetta, ma prima di andare puoi ancora scegliere un fiore per completare la tua collezione –
La bambina si era guardata allora intorno sfiorando con delicatezza tutti quei petali arcobaleno che sfacciatamente s’andavano offrendo alle sue carezze, ma lei aveva guardato in basso e notato la solitaria piantina d’ortica verso cui ora tendeva quella mano che il papà prontamente trattenne.
– Fai attenzione, Emma, quella è una piantina di ortica e potrebbe pungerti –
– Hai detto che potevo cogliere ancora un fiore, papà –
– Non è proprio un fiore, Emma – Aveva ribadito il padre ridendo
– L’ortica è una pianta umile e generosa, e non tutti sanno quanto è grande il suo cuore. Ingiustamente non è tenuta in gran considerazione nonostante abbia dato, fin dai tempi più remoti, il suo contributo in medicina, agricoltura, erboristeria e medicina. Non ha colori sgargianti né fiori voluminosi, per questo i pittori non la notano, e le sue foglie urticanti le hanno alienato le simpatie degli innamorati e dei poeti. La sua bellezza, Emma, è tutta interiore, una bellezza che spesso non riusciamo a vedere perché poco attenti, perché il nostro sguardo è per lo più è attratto da ciò che si mostra in superficie attraverso segnali estetici, spesso ingannatori, dimenticando che in natura anche la grazia può nascondere l’insidia. Non dimenticare che le rose hanno anche le spine. Così si può affermare che questa piantina è la più onesta di tutte mostrandosi, senza finzioni, nella sua schietta esteriorità. Meno bella di tante altre, se guardiamo all’esterno, ma superlativa, se arriviamo al suo cuore –
– Forse per questo sembra così triste. E’ lei che voglio. Anche la mamma saprà apprezzarla –
A quelle parole una dolcezza sconosciuta pervase la piantina d’ortica che senza opporre alcuna resistenza si lasciò cogliere dalla mano che, con estrema delicatezza la dispose nel panierino, avendo cura di avvolgerla nel fazzolettino umido dove aveva posto, per non farli sfiorire, i fiorellini multicolori.
Mollemente adagiata sul fondo del cestino, dove era stata collocata come sul trono di una regina, la piantina d’ortica sradicata dalla pesantezza del suolo natio d’improvviso venne colta una vertigine, sentendosi d’un tratto incorporea, creatura d’aria e non più di terra, eterea e fluttuante in un mondo che, inspiegabilmente, andava sfocando.
Cancellati tutti i colori.
S’accorse solo allora che tutte le cose all’interno del panierino erano terribilmente fredde, che da loro non scaturiva alcun tepore né di profumo.
In uno sprazzo di lucidità intuì che quel lino umido, che avrebbe dovuto mantenerla viva, sarebbe stato, invece, il suo sudario, così come lo era stato per i fiorellini multicolori, il grasso fungo, il tondo cipollotto e le minuscole more: ormai niente altro che nature morte.
Ghermita da un devastante senso d’angoscia, gettò tra le fessure del vimini un ultimo sguardo a quella che era stata la sua zolla di terra dove così a lungo s’era sentita infelice e da dove, ora lo sapeva, mai più avrebbe voluto esser strappata via.
Per un momento le balenò davanti il fotogramma indistinto del grosso ragno, come sempre affannato a compiere acrobazie per tessere la sua inutile tela, e sentì tenerezza e nostalgia per lui, sentimenti sconosciuti che mai aveva provato prima e che la scaldarono un poco dalla tristezza e dal freddo che sempre precedono la morte.
– Non trovi, anche tu papà, che il mio cestino ora sia davvero bello? – Chiese la bambina rimirando soddisfatta il suo piccolo capolavoro.
– Hai ragione, Emma, è un cestino ineguagliabile – Rispose lui, orgoglioso, chinandosi a darle un bacio.