Mariù e Menico procedevano affiancati nella controra, lui col suo passo lungo cavallerescamente misurato su quello di lei, per non distanziarla di troppo.
Menico (Domenico) e Mariù (Mariuccia) Iodice, i coniugi della masseria da basso, quelli che avevano i soldi ma non i figli, e questo per colpa di lei, insinuavano le malelingue, così minima e provvisoria, visibile solo per l’abbondanza della chioma, fitta e chiarissima, colore della stoppa, ma i fianchi stretti e la passerina chissà quanto minuta, da far tribolare un uomo ad entrarci ed un neonato ad uscirci.
Tanta ricchezza e neppure un erede, che Menico, già figlio unico, faticava da solo a portare il peso di quel cognome che constava di migliaia di ettari di terreno agricolo ed un allevamento bovino, assai ben avviato.
Tant’è che è risaputo, come spesso capita, che chi ha il pane non ha denti, e senza nessuna ragione spiegabile alla logica, Menico s’era intestardito a voler in moglie questa maestrina dall’aspetto provvisorio, incolore ed inodore, mettendosi contro la famiglia intera che per lui, bello e ricco, avrebbe preteso una sposa diversa, se non più bella, o benestante, almeno con le qualità di una fattrice.
E si che di pretendenti ce n’erano a voler ricoprire quel ruolo, fornite oltre che di maggiore bellezza anche di cospicua dote.
Ma lui s’era intestardito al punto che con nessun ragionamento fu possibile smuoverlo dal suo proposito.
«O sposo Mariù, col vostro consenso, o me la sposo comunque, senza la vostra approvazione, e ce ne andiamo a vivere in una città estera». Aveva detto, opponendosi deciso, al volere del padre.
E quest’ultima minaccia era stata, alla fine, risolutiva.
Quella che aveva determinato il consenso alle nozze.
Mariù, di professione maestra, più volte aveva provato lei stessa a convincere Menico di non mettersi contro la famiglia, di cui capiva benissimo le motivazioni e, seppur le facevano male, intuiva che non originassero da una repulsa preconcetta nei suoi confronti ma, piuttosto, dall’ostinazione protettiva, seppur prevaricante, della preoccupazione della tutela del nome e dell’accrescimento dei beni, che la ricchezza esige che s’accompagni ad altra ricchezza, mentre lei, oltre al suo stipendio di statale, non possedeva null’altro.
Naturale che la famiglia di lui aspirasse ad una sposa con un curriculum più sostanzioso.
Ma a questi ragionamenti, Menico, appassionatamente s’opponeva, e ribadiva quella sua libertà di scelta che teneva conto del cuore e di niente altro.
Anzi, quando lei con tono misurato e dolce, si predisponeva a tali discorsi, lui le chiudeva la bocca con un bacio e le sussurrava tra i folti capelli albini, te o nessun’altra.
E questo impediva il prosieguo del discorso, perché Mariù, commossa ed innamorata, sentiva venir meno la determinazione a dissuaderlo dall’ostinazione per quel loro amore.
Il suo sentimento sincero soffriva dell’umiliazione dell’ingiustizia preordinata dal ceto e dal conto in banca, ma nonostante questo pur si prodigava per evitare quella rottura minacciata di Menico con la famiglia, sebbene lei stessa non avrebbe saputo immaginare la vita senza di lui.
Il giorno delle nozze Mariù somigliava più ad una comunicanda che ad una sposa, che nell’abito bianco sembrava sperdersi, e pure del velo avrebbe potuto farne a meno, con quei capelli chiarissimi sparsi sulle spalle, a farle da manto.
In virtù della legge dei contrasti, invece, Menico, alto il doppio e bruno come un arabo, sembrava ancor più imponente e scuro.
Matrimonio benedetto dall’amore, ma senza figli.
E si che all’inizio, Mariù, non riusciva a rassegnarsi, tanto forte era il desiderio di dargliene uno, ma non per quelle cose misere, quali il nome e la discendenza, ma perché sarebbe stato il suo dono più grande, il risultato di quelle loro notti appassionate dove lei gli si concedeva come in una festa, nella glorificazione dei sensi e del sentimento. Notti di sesso e di confidenze.
Come quando dopo aver fatto l’amore, Menico, con la testa poggiata sul seno di lei, spesso le chiedeva un racconto, una storia vera o di fantasia, per continuare a vibrare, prima del sonno, ancora di piacere sessuale nel sottofondo di quella voce morbida, che esplorava per lui il buio con la lanternina magica della fantasia.
E neppure una volta lei lo deluse.
«Raccontami una storia, Mariù».
Mariù si fermava brevemente a frugare nel baule inesauribile della sua fantasia e tornava con la trama di una novella inedita, o i versi di una poesia, che anche poteva essere traccia per una canzone o per una ninna nanna.
Più spesso recava il dono prezioso di una storia d’amore, che era poi la loro stessa.
«Cosa ci trovi in quella femmina che le altre non hanno?» Gli aveva chiesto un giorno, esasperato, suo padre
«Mi piace lei, la sua voce, e come sa raccontar le storie. In particolare una: la nostra». Aveva risposto, senza tentennamenti, Menico.