Il mare è stato per giorni liscio come la lanca dove andavo a pescare i barbi e i cavedani, solo che invece di essere  verde cupo era di un inquietante azzurro pallido. Non blu come il cielo, voglio dire, qualcosa di snervante, immenso, vivo.
Il sole picchiava implacabile, ma nelle profondità della nave, dove dividevamo le cuccette con il rombo continuo dei motori, il caldo era asfissiante, così preferivamo tutti uscire fuori, sul ponte inferiore. Non potevamo lasciare dallo spazio che ci era stato assegnato, ci era permesso di stare soltanto a poppa perché – si diceva, ma io questo non l’ho mai visto davvero – i passeggeri della prima classe non ci vedessero. Si dicevano tante cose, nelle lunghe ore d’ozio del viaggio, e mi stupiva vedere che tutti ne sapevano più di me, ma stare ad ascoltare mi piaceva, non sono mai stato un tipo capace di trovare tante parole.

Stanotte, però, tutto è cambiato. Dalle nostre cuccette, stipate nei corridoi larghi tre metri e alti meno di due, con i letti a castello da entrambi i lati, abbiamo sentito la nave vibrare e uno strano movimento in avanti e indietro e allo stesso tempo di lato che mi faceva venire su lo stufato che ci avevano dato per cena. Ora mi veniva in mente la risposta che mi aveva dato il ragazzo che girava con il pentolone, quando mi sono stupito non vedendola solita zuppa:
«Stanotte si balla» mi aveva detto «niente cibi liquidi se non volete nuotare nel vostro vomito».
E rideva come un matto, con quella bocca mezza sdentata.
Lì per lì non avevo capito. Ballare? Dove? Io un po’ sapevo ballare, lo facevo alle feste del paese quando cercavo di avvicinare qualche ragazza, ma ero goffo come un orso, mi dicevano, e mi vergognavo.
Però ero contento dello stufato, non mi era capitato spesso di mangiare della carne, in vita mia.

Quando capisco cosa intendeva con ballare quel marinaio ormai metà delle persone sta rigettando lo stufato e sul pavimento non ci si può camminare. Molti hanno cercato di raggiungere le latrine, ma i più non ce l’hanno fatta e hanno dovuto liberarsi per strada. Io guardo terrorizzato quello che sta succedendo e non ho il coraggio di muovermi perché sento anche io un vago malessere alla bocca dello stomaco.

«Tieni!».

La voce proviene dalla cuccetta sotto alla mia. Mi sporgo con cautela e vedo che il mio compagno mi sta allungando un limone. Lo prendo senza capire e lo rigiro tra le mani.
«Comincia a succhiarlo» mi fa «e muoviti il meno possibile. Asseconda i movimenti della nave e vedrai che ti passerà».
Faccio come dice ed effettivamente va meglio.
«Grazie» gli dico, facendo cenno di restituirgli il limone.
«Tienilo, ne ho degli altri».
«Grazie» ripeto.
«Lo faccio solo perché non voglio che mi vomiti in testa, capito?» mi dice sporgendosi oltre il bordo.
Accenno di sì e mi ritiro sotto la coperta. Adesso sento il rumore della pioggia che batte sulle lamiere. O credo di sentirlo, non lo so perché ad un certo punto mi addormento.

Mi sveglio per il rumore che sento in fondo al corridoio. Due marinai hanno portato dei secchi e degli stracci e sento che dicono di arrangiarsi a pulire. Mi guardo intorno e vedo che la gente è indecisa, ma salto giù stando attento a dove metto i piedi e vado ad aiutare. Ho pulito tante volte la merda e il sangue dei maiali che un po’ di vomito non mi fa certo impressione!

Ci mettiamo tutta la mattinata a ripulire, anche perché ogni volta bisogna andare a svuotare i secchi nelle latrine e sono lontane, ma alla fine ci riusciamo. L’odore non se ne va, ma almeno il pavimento è pulito e dopo un po’ non ci faremo più caso. La maggior parte dei miei compagni è andata sul ponte, visto che non piove troppo forte e almeno lì l’aria è pulita, ma io sono troppo stanco e preferisco ributtarmi in cuccetta. Rifaccio il corridoio barcollando, perché il mare non ha smesso di essere agitato, e per poco non finisco addosso ad una cuccetta dove c’è un tipo immobile come fosse morto.

«Ehi» gli chiedo «va tutto bene?».
Lui si tira su, e allora vedo i capelli bianchi e la pelle piena di rughe. L’avevo già notato, ma stava sempre in disparte e non mi ero reso conto di quanto fosse anziano.
«Va bene, va bene» mi fa, scuotendo la testa.
«A me non sembra tanto» gli dico.
Strabuzza gli occhi in un modo che mi fa ridere:
«Vuoi saperne più di me?».
Lo guardo, non sapendo se sta prendendomi in giro o dice sul serio, ma sì, sta scherzando, e rido anche io.
«Dove stai andando, vecchio?» gli chiedo, quando abbiamo finito di ridere tutti e due.
«A morire» mi risponde lui, serio.
«Nessuno attraversa il mare per andare a morire!» protesto.
«Il vecchio sorride a fatica.
«Hai ragione: vado a Buenos Aires a cercare i miei figli».
«I tuoi figli?».
«Sì, sono partiti dieci anni fa, tutti e tre, guarda!».
E tira fuori una foto sdrucita dove si vede un gruppo di ragazzi in posa, con i vestiti della festa.
«Ecco, vedi? I miei figli sono questi» dice, indicandomi alcuni ragazzi, «questo è Luigi, quest’altro è Carlo e quello lì in fondo, mezzo coperto, è Luciano».
Gli restituisco la foto senza parlare.
«Lo so cosa vuoi dire» riprende «vado lì perché non ho più nessuno: mia moglie è morta, la mia unica figlia si è sposata da anni e vive in Veneto con il marito. Io sono rimasto solo, così ho venduto tutto quello che avevo e sono partito».
Continuo a guardarlo senza trovare le parole.
«…mi è bastato appena per compare il biglietto» mi dice ancora, quasi vergognandosi.
«Ma i tuoi figli… Li troverai?».
«Certo che li troverò!» esclama, agitandosi. Poi abbassa la testa.
«Non lo so… Il paese è grande e io sono vecchio… non lo so».
Vorrei abbracciarlo come se fosse mio padre, ma non oso.
«Vedrai che li troverai» dico, facendo per alzarmi, ma lui mi trattiene per una mano.
«Se non li troverò vorrà dire che morirò lì invece che a casa mia, un posto vale l’altro».
Mi fermo.
«Ma allora perché sei partito?» gli chiedo «non era meglio restare al tuo paese?».
Lui mi guarda con occhi umidi, mi ricorda il mio cane da caccia, quello che mio padre aveva abbattuto quando non riusciva più a fiutare la lepre.
«Io non ho più un paese» mi dice «non è il mio paese quello che fa emigrare i suoi figli per non morire di fame!».
Lo lascio così, con due lacrime che gli scendono sul viso rugoso. Non so perché, ma non credo che ci arriverà neanche, a Buenos Aires, che in realtà volesse soltanto fuggire dal suo paese maledetto.
Come il mio.