La nostra storia inizia con l’Ambasciatore del Panama a Lisbona, di cui tacciamo per rispetto il nome, un tocco d’uomo dall’aria luttuosa ed incorruttibile, che ora però blatera incoerente, in preda ai demoni del piacere, frasi che esulano dal linguaggio di un così alto funzionario, e che qui per decenza omettiamo (per non incorrere in scomuniche e scandalizzare chi s’imbatterà nella lettura di questa storia) dimentico del suo titolo e del decoro che le sue competenze gli addebitano, al momento ineluttabilmente smarriti nel cataclisma dei sensi che lo ha travolto tra le coltri di odalisca prezzolata di Orsola Guinèe.
L’Ambasciatore del Panama a Lisbona arranca esausto, ancorato alle gambe solide ed alle braccia da bucaniere di Orsola, mentre in preda ai sussulti del godimento mormora litanie incomprensibili e…canta, perfino.
Sì, avete ben inteso, l’Ambasciatore del Panama a Lisbona con un filo di voce canticchia una una ninna nanna con la quale s’addormenta rappacificato con il mondo col quale deve esser sempre costretto a mediare, e a barcamenarsi, tra punti e virgole, atti a costruire passatoie per avanzare e reticolati per contenere, che questo è lo scopo della diplomazia, e ciò che da lui, in virtù della sua carica, si esige.
Dunque, ora che l’Ambasciatore riposa tranquillo con la bocca socchiusa sul capezzolo sinistro di Orsola, colto dal sonno al termine di una strofa che doveva forse finire con la lettera E, che è questo che a noi pare essere nella mimica grammaticale delle sue labbra, questo si evince dalla loro apertura minima, che se fosse stata una A oppure una O, avrebbe di sicuro avuto un diametro maggiore. Stabilito anche questo dettaglio, seppur ininfluente ai fini di questa storia, è nostro dovere risalire alle cause che hanno favorito la contaminazione tra un personaggio di alto livello, quale è l’Ambasciatore del Panama a Lisbona, ed Orsola Guinèe, apolide, puttana di mare, peregrina instancabile di rotte e di porti, ospite di riguardo, seppur di contrabbando, su battelli e navi i cui equipaggi, ufficiosamente e per vie traverse, fanno trapelare la notizia del suo imbarco, garantendosi il tutto esaurito e, quasi sempre, la certezza della presenza di una qualche celebrità o personaggio di alto lignaggio, e se la memoria non m’inganna, perfino di una eminenza, salita a bordo forse per redimere o per essere redenta, che il filo sottile tra chi pecca e chi assolve a volte è assai ingarbugliato, e così meglio non indagare su questa che è poi un’altra storia, ma diligentemente limitiamoci a fare un nodo al capo del filo ritrovato, come un punto alla fine di un capitolo.
Orsola Guinèe, che non è questo il cognome della sua nascita che noi pensiamo sia, invece, di origine italiana, come lascia intendere l’etimologia del suo nome, Orsola e non Ursula, che avrebbe, invece, suggerito un più largo ventaglio d’ipotesi sulla sua nazionalità, essendo lo stesso nome in questa variante largamente diffuso in tutta Europa.
Di origine italiana, forse figlia d’immigranti, povera gente che ha cercato sorte migliore lontano dal suolo natio. Dove, non ci è concesso stabilirlo dal momento che incontriamo, per la prima volta, Orsola ancora adolescente ma con le fattezze sviluppate di una donna, sotto la tenda rabberciata di un circo a Cayenne, ingaggiata per distogliere l’attenzione del pubblico dagli inganni, fin troppo visibili, di un mago da strapazzo.
Compito di Orsola è quello di svolazzare intorno al vecchio ciarlatano preposto ai giochi di magia, e le cui dita deformate dall’artrite hanno perso la dimestichezza con l’invisibilità del trucco, e penosamente arrancano, lente e fuori sincrono, svelando sovente l’inganno, ed è in questi momenti di raccordo che lei deve esibirsi in un inchino, quanto il più possibile plateale e scomposto, per calamitare su di sé l’attenzione del pubblico.
E non ha molto da faticare, Orsola, in questo suo compito, poiché i suoi seni generosi paiono dover prorompere, ad ogni squillo di trombetta, dal corpetto stentato che li contiene, in un carnevalesco, gioioso lancio di gancetti e stringhe e fiori di cartapesta.
E’ questa l’unica magia che il pubblico anela e per la quale paga il biglietto.