Fin da bambino amavo l’arte, soprattutto la pittura. Quando andavo a casa dal nonno paterno, nel quartiere San Lorenzo di Roma, a due isolati da casa mia, dopo aver mangiato e giocato con il nonno, prendevo il mio blocco di fogli Fabriano e con le matite colorate, i pennarelli e i pastelli a cera copiavo i numerosi quadri che il nonno aveva ben disposti sulle pareti della sua piccola casa, rendendola sontuosa ed elegante. I soggetti dei quadri erano soprattutto paesaggi: boschi, pianure e marine. Circondati da essi sembrava di vivere immersi nel verde o nelle acque del mare, molto lontani dal nostro quartiere, così degradato. Il nonno, era un carabiniere in pensione ancora piacente. Alto, magro, con i capelli folti e brizzolati e gli occhi azzurri ma dopo la morte della nonna, avvenuta a causa di un infarto qualche anno prima  che lui si ritirasse dal lavoro, non ebbe più voglia di relazionarsi con una donna e preferì dedicarsi alla sua pittura. Una passione che anche lui aveva fin da ragazzo. Il nonno era molto fiero di me e un pomeriggio nel salone della sua casa, anche se ero ancora molto giovane, mi mise a disposizione un cavalletto, una grande tela e mi insegnò a dipingere con i colori a tempera. Con rapidi gesti bagnava il pennello, prendeva un po’ di colore e lo stendeva sulla tela. Poi mi dava un buffetto affettuoso sulle guance e aggiungeva, “Adesso tocca a te”.

Imitandolo copiai una sua marina dalle belle sfumature di blu e di azzurro. Il risultato fu soddisfacente, tanto che a lavoro finito, il nonno mi scompigliò i capelli e compiaciuto, “Hai stoffa. Non devi mai smettere di disegnare e dipingere”.

Grato dei suoi complimenti lo abbracciai e lo baciai sulle guance e ci scambiammo le coccole, perché ci volevamo molto bene. Anche i miei genitori, gente umile, erano molto contenti di questo mio talento. Mia madre con le signore per cui lavorava ad ore, non faceva altro che decantarmi e anche mio padre tesseva le mie lodi con i suoi colleghi, operatori ecologici. Quando giunse l’ora di iscrivermi alle scuole superiori, tutti accettarono molto bene la mia scelta di fare il liceo artistico. Mi parlarono molto bene del IV liceo artistico statale di Roma e decisi di fare in questo istituto le scuole superiori. Il primo giorno di scuola fu il nonno ad accompagnarmi a piazza Cavour e mi lasciò all’ingresso dandomi delle grandi pacche sulle spalle per incoraggiarmi. Invece quando varcai la soglia del liceo, mi trovai in soggezione perché vidi in un angolo delle grandi sculture, riproduzioni del discobolo di Mirone e della dea Minerva, che mi intimorirono.

Mi feci coraggio, salii la lunga rampa di scale e raggiunsi la mia classe, al primo piano, che per quel giorno era quella di figura. Era meravigliosa, ampia, piena di cavalletti, sgabelli e sculture in gesso. C’erano molti allievi, ma subito notai una ragazza che poteva avere qualche anno più di me. Era bionda con i capelli lunghi sulle spalle. Indossava solo uno slip nero ed era sdraiata su un fianco, su un morbido cubo. Era immobile, anche se ogni tanto prendeva una pausa e si sventolava con un grande ventaglio cinese perché faceva ancora caldo. Rimasi a bocca aperta dalla meraviglia di trovarmi in classe una ragazza seminuda. Il professore dovette essersi accorto del mio turbamento, perché divertito mi strizzò un occhio poi, rivolto anche agli altri studenti, disse che dovevamo fare una riproduzione dal vero, cioè copiare il corpo di quella ragazza, che era la nostra modella e si chiamava Margherita, usando la tecnica da noi preferita. Con un fazzolettino asciugai le mie mani sudate per l’emozione e scelsi di usare la sanguigna, una matita dal colore rossastro che sfumai in alcune sue parti con lo straccio e la gomma tenera. Ebbi un ottimo risultato e il professore osservando attentamente il mio lavoro mi diede uno scappellotto e mi disse che ero proprio bravo. Anche Margherita che intanto, alla fine dell’ora, si era vestita, venne a vedere il mio disegno e mi fece un applauso. Diventai rosso come un peperone. Da quel giorno, anche se eccellevo in quasi tutte le materie come storia dell’arte, ornato, modellato, figura divenne la mia lezione preferita, soprattutto perché vedevo Margherita. Nelle settimane seguenti la ritrassi usando molte tecniche come il carboncino, l’inchiostro di china e la tempera, come mi aveva insegnato il nonno che, anche se ormai molto anziano, mi stimolava e mi incoraggiava sempre. Ritrarre il corpo di Margherita, i suoi seni alti e rotondi, il suo ventre un po’ prominente e le sue cosce muscolose, mi faceva sentire sempre più attratto da lei, insomma avevo preso la mia prima cotta, ma non sapevo come dichiararmi, perché non avevo mai un incontro a quattrocchi con la bella Margherita.

Una mattina si presentò l’occasione. Avevo voglia di fare una bella colazione prima di andare a lezione. Mi fermai al bar di via Crescenzio proprio vicino la scuola, e Margherita era lì che guardava i cornetti, mangiandoli con gli occhi. Da quando la conoscevo l’avevo vista sempre solo con gli slip, così mi fece strano vederla vestita, tra l’altro in maniera elegante, con un bel tubino rosso e nero e le calze a rete. Mi avvicinai con cautela, le sfiorai una spalla e lei trasalì ma poi girandosi verso di me mi riconobbe, sorrise e mi disse: “Vai a scuola?”

“Si, tu sei dei nostri?”

“No, oggi lavoro in un’altra classe”

“Vuoi fare colazione con me?”

“Perché no?”

Ci dirigemmo verso la grande sala adiacente alla caffetteria piena di tavolini neri coperti da tovagliette a motivi floreali come le imbottiture delle sedie e le tendine alle finestre. Anche se non c’era tanta gente ci sistemammo in un angolo. Il cameriere ci raggiunse poco dopo e con molto garbo prese le ordinazioni. Entrambe scegliemmo di consumare un caffè e un cornetto che ci furono serviti dopo pochi minuti. Mentre sorseggiavo la bevanda calda le domandai, “Tu non studi?”.

Per un pelo non le andò di traverso il caffè, poi tristemente rispose: “No, ho dovuto rinunciare a farmi un’istruzione perché mio padre ha abbandonato mia madre, per farsi una famiglia con un’altra donna. Siamo rimaste sole e devo aiutarla economicamente”.

“Mi dispiace. Anche io ho origini umili perché mia madre fa la cameriera a ore e mio padre l’operatore ecologico. Ma nel mio caso è stato il nonno ad aiutarmi economicamente e ad incoraggiarmi a fare questi studi. Sono orgoglioso di lui”.

“Beato te…”.

Mentre consumavamo i nostri cornetti, tra di noi, calò il silenzio che ruppi dicendo: “Adesso devo andare, altrimenti faccio tardi a scuola. Perché non continuiamo la nostra conversazione nel pomeriggio?” dissi alzandomi e scostando la sedia dal tavolo.

“Dove?” chiese incuriosita.

“Alla Mole Adriana, ad esempio. E’ una bella giornata e fa ancora caldo, anche se siamo in autunno. Ti va?”

“Sì, è una buona idea”

“Allora ci vediamo alle quattro, all’ingresso della villa”

“Va bene. Per il momento resto un po’ qui qui, perché sono in largo anticipo per lavorare”

“Come vuoi”.

Mi avviai a scuola quasi correndo. Mi sentivo felice, esaltato per aver finalmente parlato con Margherita e di averle strappato addirittura un appuntamento. A lezione mi sentivo carico e diedi il meglio di me, tanto che i professori mi fecero i complimenti. Quando giunse il pomeriggio mi avviai alla Mole Adriana. Attesi qualche minuto poi vidi Margherita venire verso di me a passo veloce. Era proprio bella. Indossava un abito leggero e morbido di colore nero con una fantasia di fiorellini rossi e azzurri. Aveva ancora delle calze a rete e calzava scarpe con il tacco. Quando si avvicinò emozionato come un bambino mi protesi verso di lei e le baciai le guance. La presi per mano e cominciammo a passeggiare per i viali della grande villa, proprio vicino al nostro liceo. Ad un certo punto, però, a lei fecero male i piedi, così si tolse le scarpe e ci sedemmo sul prato. “Dove abiti?” mi domandò.

“A San Lorenzo”

“Allora siamo vicini. Abito in via Tiburtina. Cosa vuoi fare dopo la scuola?”

“L’artista”

“Fai bene. Sei bravo”

“Tu cosa vuoi fare?”

“Voglio sposarmi e mettere su famiglia con un uomo che mi fa fare la signora. Sono stanca della mia vita”, disse con determinazione.

“Hai già un pretendente?”.

Non rispose, ed io rispettai il suo silenzio. Nel frattempo mi alzai, raccolsi un po’ di margherite dal prato e quando ne feci un bel mazzetto le porsi  a lei. “Che buon profumo!”, disse felice.

“Hai il nome di questo fiore, per questo sei bella e anche tu profumi”.

Dicendo questo mi chinai verso di lei e cercai la sua bocca per baciarla. Ma lei mi disse che non era il momento, così accettai la sua volontà. Entrambi ci alzammo dal prato, lei rimise le sue scarpe e ci avviammo verso l’uscita.  Ci lasciammo con la promessa di vederci ancora, per uscire insieme. Due giorni dopo avevo lezione di figura e non stavo nella pelle dalla gioia perché avrei rivisto Margherita. Mi ero ripromesso di ritrarre il suo corpo dalle forme sinuose usando la tecnica dell’acquerello. Entrai in classe baldanzoso, ma ebbi un’amara sorpresa. In posa sul cubo morbido non c’era Margherita ma una signora di circa quarant’anni. Aveva i capelli neri a caschetto ma il suo corpo non aveva nulla a che vedere con quello di Margherita. La signora era in sovrappeso e il suo seno abbondante era cadente, tanto che poggiava sullo stomaco. La ritrassi malvolentieri usando il carboncino, ma il risultato non fu soddisfacente. A fine lezione il professore iniziò a girare tra i cavalletti per giudicare il nostro lavoro.

“Che succede Diego? Ti sei arenato?”, disse spuntando alle mie spalle.

Con un filo di voce risposi, “Dov’è Margherita?”.

Il professore mi accarezzò una guancia, “La tua modella preferita è malata”.

Mi misi l’anima in pace e alle lezioni seguenti mi arresi a ritrarre questa donna che, per me, era mostruosa. Mi rammaricavo perché non avevo neanche il numero di telefono di Margherita, così non potevo neanche parlare con lei. Dopo qualche mese il mistero della sparizione di Margherita mi venne svelato. A scuola, durante una pausa tra una lezione e l’altra, ero alla macchinetta del caffè per prendere una bevanda calda. Un mio amico, compagno di classe, si avvicinò, “Diego, Margherita si è sposata e non lavora più per noi”.

 

Mi cadde il  cappuccino in terra, “Cooosa, nooo!”

“Finora non ti abbiamo detto niente perché ci rendevamo conto che ne fossi innamorato. Ma adesso è giusto che tu sappia”.

Diedi una spinta al mio amico e corsi in classe. Raccolsi le mie cose alla rinfusa e dissi al professore che stavo male. Lui perplesso aggrottò le sopracciglia però mi disse che potevo andare. Mi diressi alla Mole Adriana e dalla rabbia cominciai a prendere a calci una pallina di carta. Mi sedetti sul prato, dove ero stato con lei e piansi calde lacrime. Il giorno seguente tornai in classe come un cane bastonato ma i miei compagni di classe, da  quel momento, mi furono molto vicino. Ogni mattina mi aspettavano seduti al muretto della Mole Adriana per parlare e fumare prima di entrare in classe. Iniziai a partecipare alle assemblee e alle manifestazioni. Erano gli anni ’70, un periodo di grande fermento politico e mi aggregai con loro nella lotta ai fascisti del Mamiani, che venivano alla nostra scuola con spranghe e catene per fare minacce.  Insomma mi distrassi molto e quasi non pensavo più a Margherita. Presto fui sopraffatto da un altro grande dolore perché il nonno si ammalò di anemia emolitica. Andavo spesso a trovarlo all’ospedale San Giovanni dove era ricoverato ma ne uscivo devastato perché il nonno versava in condizioni pessime. Era bianco come un lenzuolo ed emaciato e non accennava a riprendersi, nonostante le cure. L’ultima volta che andai a trovarlo, quasi sussurrando mi disse: “Diego, promettimi che nella vita farai l’artista”.

“Sì, certo nonno”.

Subito dopo spirò con un sorriso sulle labbra, mentre la mamma e il papà piangevano come due bambini. Perdendo il nonno mi venne a mancare un grande punto di riferimento, ma cercai di reagire impegnandomi molto a scuola, per non venir meno alla promessa fatta sul suo letto di morte. Tra una cosa e l’altra, giunsi a frequentare l’ultimo anno ed ebbi un’altra amara sorpresa.

Quando entrai in classe il primo giorno del quarto anno mi dissero che il professore di figura era stato trasferito in un’altra scuola e che, al suo posto, c’era un altro docente di nome Pietro. Quando vidi questo nuovo insegnante non potei fare a meno di essere colpito dal suo aspetto, perché sembrava un poveraccio. Era bassino e aveva capelli folti e ricci tutti bianchi. Indossava un paio di jeans sdruciti e una maglietta nera lunga e larga. Ai piedi calzava scarpe da ginnastica un po’ consumate. Quando entrammo tutti in classe egli con le mani in tasca cominciò a girare tra i cavalletti e ci disse che il programma sarebbe cambiato. Non avremmo avuto più una modella, ma avremmo riprodotto opere di artisti famosi del passato. Ne fui felice perché non ne potevo più di copiare corpi di modelle che non avevano niente a che fare con quello di Margherita. Alla lezione successiva, difatti, ci portò una gigantografia della Primavera del Botticelli che tutti noi ci impegnammo a riprodurre con varie tecniche. Questa volta usai i colori ad olio e venne un bel lavoro, tanto che il professore mi disse che avevo stoffa, come una volta si espresse il nonno nei miei confronti. Con il tempo Pietro con noi allievi si rivelò un amico: si faceva chiamare per nome, appoggiava i nostri ideali e la nostra voglia di aggregazione. Ecco, dovetti ricredermi sul suo conto. Tra una lezione e l’altra divenni il suo pupillo, tanto che un giorno mentre stavamo per uscire da scuola, mi disse: “Diego, vuoi venire a mangiare con me due gnocchi da Teresina? La trattoria  è dietro l’angolo”.

Accettai volentieri e a piedi raggiungemmo il ristorante. Quando entrai nel locale, fui colpito dal suo arredamento rustico. C’erano tante panche di legno coperte da tovaglie a quadretti bianche e rosse come le tendine alle finestre. Ci venne incontro una donna rubiconda checon le mani sui fianchi, ci accolse con simpatia. “Cosa posso servirvi?”.

All’unisono io e Pietro rispondemmo: “Gnocchi”.

“Solo questo?” disse lei un po’ delusa.

“Prendiamo anche pollo allo spiedo con le patate arrosto” rispose Pietro.

“Così mi piacete” disse compiaciuta la signora che a passo veloce si diresse in cucina.

Intanto noi prendemmo posto al centro della sala perché non c’era nessuno e Pietro mi versò un bicchiere di vino rosso, “Bevi, fa sangue”.

Le pietanze non tardarono ad arrivare e noi mangiammo con voracità bevendo anche qualche bicchiere di troppo. Dopo il caffè Pietro si accese una sigaretta e mi porse il pacchetto, “Gradisci?”.

“No grazie, non fumo”.

“Beato…”.

Fumò in silenzio ma quando spense la sua sigaretta Pietro aggiunse: “Veniamo al dunque. Ho notato che sei molto bravo a riprodurre i dipinti degli artisti più famosi. Ti faccio questo elogio non solo come professore ma anche come Madonnaro. Nei ritagli di tempo, da anni, mi diletto a questa arte di strada. La definisco così perché si tratta di esibirsi con semplici gessetti colorati e pigmenti naturali lungo le strade, sui sagrati delle chiese e nelle piazze, in occasione di feste patronali, sagre paesane, rievocazioni storiche, fiere natalizie, eventi fieristici, riproducendo per la gioia degli occhi di tutti, in modo fedele e spettacolare le opere della più famosa arte pittorica dei secoli, immagini sacre e profane degli artisti più famosi. E tu mi capisci perché sei molto bravo nelle riproduzioni. Per questo viaggio molto anche a livello internazionale. Ma ad agosto vado in Puglia, precisamente nel Salento perché c’è un incontro dei Madonnari di tutta Italia. E’ in questo paese che ha origine quest’arte povera. Dopo la maturità, vuoi venire con me? Vorrei insegnarti a dipingere in strada perché sei stato il mio migliore allievo, certo, devi abituarti all’idea di vivere solo degli oboli della gente generosa, non guadagni molto, ma diventi ricco dentro. Dopo questo suo lungo parlare, sgranai gli occhi per lo stupore e dissi: “Dovrei chiedere ai miei genitori”.

“Va bene, parlane pure con la tua famiglia. Poi mi fai sapere. Adesso andiamo, si è fatto tardi”.

Ci alzammo, uscimmo dal locale e ci salutammo allegramente.

Quando arrivai a casa, dopo cena, dissi a mio padre e a mia madre di non accendere la televisione perché avevo qualcosa da dire e riferii a loro le parole del mio professore. Rimasero a bocca aperta per la meraviglia e mio padre abbracciandomi disse: “Vai, figlio mio. Tuo nonno ne sarebbe felice. Anche se non farai tanti soldi, sarai pur sempre un artista”.

Dopo la maturità che superai brillantemente, partii con Pietro su una Diana rossa tutta sgangherata per raggiungere il Salento. Durante il viaggio parlammo animatamente di donne, poi gli parlai di Margherita e dell’orrore che provavo a ritrarre altre modelle che non erano belle quanto lei; parlammo di sport, di arte e di cultura e il tempo del viaggio passò velocemente. Quando giungemmo alla meta rimasi abbagliato dalla bellezza del paese in festa. C’erano ovunque bancarelle che vendevano ogni tipo di leccornia e attorno ad esse tante famiglie con i bambini. Fra il  brusio delle voci di queste persone, le musiche e i balli improvvisati per le strade riuscimmo a raggiungere il sagrato della chiesa, dove il Comitato della festa consegnò a Pietro un santino raffigurante la Madonna, patrona del posto. A Pietro venne assegnata una piazzola,“Mentre lavoro osservami, così impari”.

Si chinò in terra e mise come sfondo una busta di plastica che non tratteneva il colore. Poi passò ad usare materiali poveri come gessetti e crete colorate, polveri e sabbia. Mi disse che le tecniche potevano essere due: lo sfumato che appartiene alla tradizione ed il tratteggio che era stato introdotto dalle ultime generazioni di artisti. Lui usò la tecnica tradizionale e il risultato fu molto soddisfacente, tanto che ricevette tanti oboli. Gli stetti incollato per ore. In silenzio lo osservai lavorare per rubargli i trucchi del mestiere. A lavoro finito, Pietro si alzò, mi diede una pacca sulle spalle, mi si parò davanti e con aria di sfida, mi disse, “Adesso tocca a te. Buttati, non aver paura di sbagliare”.

Anche io mi chinai in terra e imitai le sue mosse. Inizialmente ero un po’ impacciato, tanto che Pietro saltando da un piede all’altro, urlava,“Dai, dai non mollare” per incoraggiarmi. E ci riuscì perché terminato il lavoro notai che anche io avevo ricevuto tanti oboli. E da quel momento decisi che quello sarebbe stato il mio mestiere. Quella sera fummo ospitati a cena da persone che non avevamo mai visto prima e che neanche Pietro conosceva e questo, per me, fu una dimostrazione di come la gente accoglieva benevolmente i madonnari, come se fossero gente di casa. La notte la trascorremmo in una pensioncina e la mattina dopo ritornammo a Roma. Quando io e Pietro ci salutammo, lui mi promise che ci saremmo incontrati spesso. Ma le cose non andarono in questo modo. Durante il nuovo anno accademico Pietro fu trasferito a Milano e poi viaggiava molto a causa del suo mestiere di Madonnaro. Quindi ci incontravamo raramente, anche se ci sentivamo al telefono quasi tutti i giorni. In quel periodo, una sera dopo cena, mentre mia madre sparecchiava e iniziava a lavare i piatti, mio padre mi disse: “Diego, ti voglio fare una proposta”.

“Dimmi papà” risposi incuriosito sedendomi di fronte a lui.

“Lo sai, il nonno aveva una casa in via Giulia. Lui non l’ha mai voluta abitare perché diceva che la gente del posto aveva la spocchia. Vuoi andarci a vivere tu? E’ sfitta da parecchio tempo. Ormai sei adulto e con la tua arte e con qualche lavoretto puoi farti una vita tua”.

Lo abbracciai con entusiasmo e con le lacrime agli occhi per la gioia gli dissi: “Grazie, papà”.

Non impiegai molto a traslocare. Dopo solo quindici giorni riuscii a trasportare lì tutte le mie cose e ad abitare quella che era stata la casa del nonno. Era proprio bella. Si trovava all’ultimo piano di un sontuoso palazzo del seicento. Si entrava direttamente nel salone arredato in stile antico con tanti quadri del nonno alle pareti. Su un lato c’era la cucina in stile country tutta in muratura, con le tendine arancioni a pois bianchi e tante pentole di rame alle pareti. Sull’altro lato c’era una scala con la quale si accedeva a un soppalco, dove c’era il letto matrimoniale con la spalliera in ferro battuto e un armadio in legno chiaro. Non  facevo altro che rimirarla, ma era arrivata l’ora di pensare al mio lavoro di madonnaro. Per esercitare la mia arte, tra le strade romane, pensai di scegliere via del Corso, perché c’erano tanti negozi ed era frequentata da tanta gente. In questo modo mi sarei fatto tanti oboli. Almeno era quello che speravo. La mattina dopo andai sul posto e scelsi una parte di marciapiede all’incrocio con Piazza Venezia dove passeggiavano più persone. Scelsi di riprodurre il bacco adolescente del Caravaggio, un’artista tanto amato dai romani. Stetti otto ore chino sul marciapiede alle prese con i gessetti. Si fermava tanta gente e anche dei bambini che lanciavano gridolini di gioia, ed io ero contento che la mia arte fosse apprezzata anche tra i più piccini. Quel giorno mi feci un bel gruzzoletto, ma in serata scoppiò un temporale e la mia opera svanì. Pietro mi aveva parlato a lungo di questo aspetto effimero di quest’arte povera, ma io ero ugualmente contento perché non consideravo il disegno mio, essendo una copia, ma piuttosto un tributo a un maestro. Nei giorni seguenti continuai ad andare a via del Corso a ritrarre tante altre opere del Caravaggio come Narciso, i bari, il bacchino malato e molte altre opere. Quello che mi guadagnavo bastava per il mio stile di vita piuttosto modesto. Mi bastava per pagare le bollette, comprare un libro a settimana, vedere un film al cinema, prendere un caffè al giorno al bar. E fare un viaggio, come per andare a trovare Pietro che non faceva altro che invitarmi. E così passarono tanti mesi. Un giorno, uno dei tanti, mentre ero intento a lavorare chino sull’asfalto, intravvidi le gambe di una donna fasciate di calze a rete nere. Alzai lo sguardo e incontrai due grandi occhi azzurri come il cielo. Rimasi a bocca aperta per la meraviglia,  “Ma possibile che sia lei?”.

Riuscii solo a balbettare, “Ma tu sei Mar ghe ri ta?”

“E tu sei Diego?” rispose divertita.

Mi alzai, mi pulii le mani su di uno straccio, “Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma non sei proprio cambiata. Ti ho riconosciuta subito”

“Anche tu non sei cambiato e sei riuscito a diventare un artista. Complimenti!”

Per festeggiare il nostro incontro ma anche perché ero curioso di sapere cosa aveva fatto Margherita in tutti quegli anni, le dissi: “Ti andrebbe di andare a prendere un aperitivo al bar?”.

“Perché no?” rispose.

Così ci incamminammo uno accanto all’altro verso il bar di piazza Venezia. Dal momento che si era in primavera inoltrata ci accomodammo a un tavolino esterno e ordinammo due Aperol Spritz. Nell’attesa le domandai il perché. “Perché anni fa, dopo il nostro primo e unico incontro alla Mole Adriana, sei sparita nel nulla?”.

Non rispose subito, e intanto furono serviti gli aperitivi. Mandò giù un sorso della bevanda fresca, “Ti avevo detto che volevo fare una vita agiata. A quei tempi ero corteggiata da un uomo più grande di me che era un medico facoltoso e l’ho sposato. Il nostro matrimonio è stato felice per parecchi anni anche perché mi ha fatto fare una bella vita. Poi ho scoperto, non perdo tempo a dirti come, che mi tradiva con le segretarie, quasi fin dai primi anni del nostro matrimonio. Ci siamo lasciati ma vivo una brutta situazione economica”.

“Mi dispiace” dissi “Ma non ti passa gli alimenti?”

“Sì, ma sono pochi soldi perché non abbiamo avuto figli”

“Ti ha lasciato almeno la casa?”

“Sì, abito ai Parioli ma devo vendere perché non posso sostenere le spese di questo grande appartamento. Non ho un lavoro, capisci?”

Presi una sua mano tra le mie per darle conforto e le dissi: “Vuoi venire a fare la modella da me? Ti pago bene. E’ il solo lavoro che posso offrirti”.

Con le lacrime agli occhi per la gioia, mi disse, “Ci puoi contare. Quando comincio?”

“Anche domani pomeriggio”.

Alzammo i calici e brindammo al nostro nuovo incontro. Questa volta, prima che lei andasse via, mi feci lasciare il suo numero di telefono che non utilizzai, perché il giorno dopo, Margherita, si presentò all’appuntamento puntuale come un orologio svizzero.

Quando entrò nella mia casa ne apprezzò l’arredamento antico ed io la feci accomodare in soggiorno su un divano di velluto nero che era appartenuto a una sorella del nonno e le servii un caffè. Questa volta fui io a parlarle di me. Le raccontai della mia arte, dei viaggi in Puglia nel Salento, dell’amicizia con Pietro e le dissi anche che da quel lontano giorno in cui andammo alla Mole Adriana non l’avevo mai dimenticata. Lei mi buttò le braccia al collo ed io cercai la sua bocca che baciai appassionatamente. Questa volta lei ricambiò il mio bacio. Poi la presi per mano e la condussi sul soppalco dove rotolammo sul letto facendo l’amore con grande ardore. Dopo l’amplesso accesi una sigaretta, osservai i cerchi concentrici di fumo nell’aria mentre Margherita accarezzava i miei capelli.

Ad un tratto le dissi: “Vieni a stare con me in questa casa. Naturalmente mi farai ugualmente da modella e ti pago”

Lei lanciò gridolini di gioia e accettò subito, stringendosi a me.

Nel giro di pochi giorni portò tutte le sue cose a casa mia e cominciammo la nostra convivenza.

I primi tempi furono felici. Lei si occupava della casa ed io del mio lavoro di madonnaro. Nel tempo libero Margherita posava per me. La ritrassi usando una miriade di tecniche artistiche e la pagavo, così lei poteva concedersi qualche spesa per sé. Naturalmente facevamo tanto l’amore. Con lei c’era un’intesa sessuale che non avevo mai provato con altre donne. Sembrava che la mia vita filasse liscia come l’olio e invece presto qualcosa s’incrinò. Margherita cominciò a desiderare dei regali molto costosi: ora un brillante, ora orecchini d’oro, ora una pelliccia ed io ero costretto a dire che non me lo potevo permettere. Lei metteva il broncio e iniziava a umiliarmi, “Facendo il madonnaro fai pochi soldi. Perché non cambi lavoro?”.

Quando mi diceva queste parole mi sentivo sprofondare e per giorni mi sentivo giù di morale. Ma per nulla al mondo avrei rinunciato alla mia arte, tanto meno per soddisfare i suoi desideri di donna viziata. E per questo litigavamo spesso, venendo, aihmé, anche alle mani.

Dopo circa un anno in cui non facevamo altro che azzuffarci ebbi il coraggio di metterla alla porta. E lei accettò di andare via senza protestare. Lasciò un grande vuoto, perché l’avevo sempre amata, ma non sentendola più urlare per casa mi sentii più sereno e mi dedicai anima e corpo alla mia arte. Contattai anche Pietro che raggiunsi a Milano, dove ebbi modo di distrarmi dopo avergli raccontato le mie disavventure con questa donna. Quando rientrai a Roma con animo più sereno ripresi il mio lavoro di madonnaro e un giorno parlando con un mio collega che era al corrente della mia separazione da Margherita mi disse di aver visto la mia ex compagna accompagnata da un uomo attempato, un noto ingegnere.

Con un’espressione del volto beffarda e malevola dissi, “Ha trovato il pollo da spennare. Adesso i brillanti e le pellicce glieli regalerà lui”.

Il mio amico mi guardò con aria comprensiva, mi diede una pacca sulla spalla e tornammo al nostro lavoro.

Una domenica di dicembre piuttosto fredda mentre tutto intirizzito ero intento a dipingere la Maria Maddalena del Caravaggio, sentii un uomo dire: “Stupendo! Lei riesce a riprodurre fedelmente le luci e le ombre del Caravaggio. Lo dico da intenditore, perché prima di diventare ingegnere ho studiato a lungo la storia dell’arte. Merita una lauta ricompensa”.

Non lo guardai subito perché mi sembrò molto presuntuoso, ma con un occhio diedi uno sguardo al cestino delle offerte: cinquanta euro. Alzai gli occhi e incontrai quelli neri di un uomo alto, slanciato, con pochi capelli, che indossava un bel cappotto di cashmere. Accanto a lui c’era Margherita vestita con una pelliccia di visone che, dopo il primo stupore, iniziò a tirare per la manica del cappotto il suo compagno urlando: “Ugo non perdere tempo e denaro con questi pezzenti”.

All’uomo diedi indietro i soldi che mi aveva offerto, dicendo che non sapevo cosa farmene.

Mentre si allontanavano, discutendo fra di loro, pensai che avevo perso gran parte della mia vita ad amare una donna che era una povera scema. Per rabbia sputai in terra, e pensai che l’unico brutto aspetto del mio lavoro fosse fare questi incontri.